domenica 13 marzo 2016

Amy Lee: passato, presente e futuro nell’EP RECOVER

Amy Lee, una delle donne più importanti del rock contemporaneo, ai più nota per essere frontwoman degli Evanescence, torna sul mercato digitale con un EP composto di quattro cover: Amy Lee – RECOVER, Vol. 1.

Sono passati ormai cinque lunghi anni dall’ultimo album pubblicato con la sua band, ma tante cose sono successe nel frattempo: Amy ha avuto un figlio e soprattutto ha intrapreso un’azione legale nei confronti della sua (ex) casa discografica che l’ha in fine portata ad essere un’artista del tutto indipendente. Questo le ha dato la possibilità di sperimentare e dedicarsi a progetti alternativi agli Evanescence, tra cui quello di pubblicare, due anni fa, un album da solista: Aftermath. Il disco è in realtà colonna sonora di War Story e contiene al suo interno solamente tre brani cantati. Già queste poche tracce portavano il timbro dell’ispirazione elettronica che ha dato nuova linfa vitale alla musica di Amy Lee. 


Amy Lee - RECOVER, Vol. 1

Il nuovo EP è una sintesi di quello che è stato, quello che è e quello che potrebbe essere. Ogni pezzo respira con un’anima diversa, ma in tutti scorre lo stesso sangue di razza. It’s a fire (Portishead) apre con il pianoforte e la carismatica voce della cantante, un connubio capace di creare un’atmosfera parallela fatta di aria e cose immateriali. With or without you (U2) è un mix di elettronica e riverberi che continua a viaggiare nella stessa dimensione eterea del precedente brano, assumendo però connotazioni quasi psichedeliche. La voce, per l’intera durata della canzone, viaggia nel (meraviglioso) registro basso della cantante. Going to california (Led Zeppelin) è un territorio ancora inesplorato: solo chitarra acustica e voce, una voce che questa volta non ha paura di giocare con le note, di accarezzare gli arpeggi di chitarra con estrema delicatezza e dolcezza. L’ultimo pezzo, Baby did a bad bad thing (Chris Isaak) ha il sapore di Evanescence e di rock. Inizialmente registrato per fare da sottofondo a una scena di un film, è stato scartato all’ultimo momento. Meno male che non è rimasto in un cassetto a prendere polvere, perché è un brano che sembra esserle stato cucito addosso.

Ogni brano è stato immerso nel personale mondo di Amy Lee prima di essere inserito nell’EP e questo mondo suona chiaro alle orecchie di chi ascolta: un mondo complesso fatto di pianoforte ed elettronica, di sussurri e chitarre elettriche. Un’artista con un potenziale espressivo enorme, che ama esplorare e scrivere musica per passione, anche se questo vuol dire farlo lontano dai riflettori e senza il supporto della band con cui ha pubblicato solo album di successo. 

Presto potremo sentire la cantante nella colonna sonora del film Voice from the stone con il brano Speak to me. Una cosa è sicura: nessuno può cercare di immaginare come suonerà, perché Amy Lee è sempre pronta a seguire direzioni inaspettate, ma sempre dannatamente belle.

giovedì 3 marzo 2016

Superarsi quando si è Adele: difficile, ma non impossibile.

Il più grande pregio di 25 è che quando lo si ascolta, anche per la prima volta, non si ha la sensazione di stare ascoltando qualcosa di nuovo, ma qualcosa che già conosciamo, di estremamente familiare, capace di suscitare emozioni come solo le cose a noi care sanno fare. Il filo su cui corre 25 è quello del rimpianto, di sguardi rivolti al passato con nostalgia, di amori infranti, ma anche il tentativo di scrollarsi di dosso i fantasmi del passato e celebrare l'amore del presente.

Adele - 25

Hello: il primo singolo, ormai lo conosciamo tutti. Un ritornello dove la cantante fa sfoggio di tutte le sue qualità canore. E, a mio parere, non è nemmeno il migliore dell'album.

Send My Love (To Your New Lover): una Adele così (pop) non l'avete mai sentita. La canzone che più di tutte esce dalla comfort zone. Suona come un tentativo di mettere un punto alla storia raccontata in 21.“We gotta let go all of our ghosts, we both know we ain't kids no more”. Era stato inizialmente pensato come primo singolo, ma (per fortuna) all'ultimo si è deciso di scegliere Hello. Non dico per fortuna perché sia una brutta canzone, ma semplicemente perché, essendo un episodio isolato, non sarebbe stata rappresentativa dell'album.

I Miss You: l'atmosfera si fa più cupa, scandita dal ritmo della batteria. La voce canta su una melodia ipnotizzante e a tratti sensuale. “In your heart I bring my soul, but be delicate with my ego. I wanna step into your great unknown”.

When We Were Young: questa canzone ha pochi giorni di vita, ma è già un classico. Parla di un amore indelebile che è come una canzone o un film che ci riporta indietro negli anni. Qui la voce di Adele viene fuori in tutta la sua bellezza: tanto nei bassi quanto nell'esplosione finale che mette i brividi. Il pezzo più soul del disco, con cori che a metà fanno il loro prezioso ingresso. “A part of me keeps holding on, just in case it hasn't gone. I guess I still care, do you still care?

Remedy: il brano con cui Adele ha ritrovato la fiducia in se stessa necessaria per scrivere l'intero album. E ascoltandola si capisce il perché: solo voce e piano per un brano che con la sua magia è capace di emozionare come pochi altri. Quando nel primo ritornello il pianoforte smette di suonare per una manciata di secondi, il cuore quasi mi si ferma in gola.“When the world seems so cruel and your heart makes you feel like a fool, I promise you will see that I will be your remedy”. Forse non la più originale delle frasi, ma efficace. Dannatamente efficace.

Water Under The Bridge: ci pensa questa canzone a riportare un po' di ritmo all'interno del disco.
If you're gonna let me down, let me down gently. Don't pretend that you don't want me, our love ain't water under the bridge” questo il ritornello che rimane da subito in testa. Verso il finale con i cori il brano acquista una sfumatura gospel. Sarebbe un ottimo singolo.

River Lea: quando dico che in 25 si vede un Adele che ancora non si era vista, penso a brani come questo. “Sometimes I feel lonely in the arms of your touch, but I know that's just me cause nothing ever is enough”.

Love In The Dark: di nuovo una ballata, ma questa volta la voce è accompagnata da un intreccio di strumenti e da un bellissimo crescendo che sfocia in un assolo di violini verso il finale. Per una volta è Adele a prendere l'iniziativa. “Please don't fall apart, I can't face your breaking heart. I'm trying to be brave, stop asking me to stay”.

Million Years Ago: una formula non molto utilizzata dalla cantante, ma con esito brillante. Solo voce e chitarra. La più nostalgica e malinconica del disco, ci si guarda indietro constatando che il tempo è passato, che non siamo riusciti a diventare chi pensavamo di voler essere, che ci mancano un sacco di cose che non torneranno più. “I know I'm not the only one who regrets the things they've done. Sometimes I just feel it's only me who never became who they thought they'd be. I wish I could live a little more, look up to the sky, not just the floor”. Sarà perché il passato è il tema del brano, ma si ha la sensazione che questo brano venga da un'epoca lontana. Bellissima.

All I Ask: di nuovo piano e voce per una delle tracce più intense dell'album. Anche qui il crescendo è notevole ed è impossibile non lasciarsi trasportare dalla voce di Adele, tra falsetti e vocalizzi struggenti. Ogni volta che il ritornello si ripete, è cantato con più forza. “If this is my last night with you hold me like I'm more than just a friend, give me a memory I can use. It matters how this ends, 'cause what if I never love again?” Anche questa, scommetto, diventerà un classico.

Sweetest Devotion: si apre e si chiude con la voce di suo figlio, Angelo, e probabilmente a lui è dedicata. “There is something in your loving that tears down my walls”. Dopo le tre ballate che lo hanno preceduto, un concentrato di energia per chiudere il disco.

25 è esattamente il disco che tutti i suoi fan stavano aspettando. Dopo il successo inarrestabile del suo predecessore 21, non deludere le aspettative era un compito difficile, ma Adele ci è riuscita grazie ad un disco che riprende il percorso esattamente da dove si era interrotto: facendoci sentire quello che avevamo già sentito e che tanto avevamo amato e aggiungendo un pezzetto in più. Grazie ai testi, alle melodie e alla voce che non ha rivali, 25 è sicuramente uno dei dischi migliori dell'anno.

martedì 1 marzo 2016

Il cuore d’artista di Noemi: coraggioso, ribelle, umano.

Cuore d'artista è uno di quei dischi che non sono semplicemente dischi. È una scatola che si apre, piena di tanti oggetti preziosi, che fanno sorridere, piangere, ricordare: fanno commuovere. Ogni canzone è speciale, racconta una storia, e trova un suo spazio ideale nella scatola. 


Noemi - Cuore d'artista

La borsa di una donna racconta il segreto mondo di una donna (ma non solo) che per troppo tempo è rimasta disconnessa da se stessa e dal suo presente. Una donna che rinasce grazie a "un vento che spazza le nuvole e che si porta via gli inverni, la polvere, i dubbi e i miracoli". L’arrangiamento è impreziosito da archi che guidano l’ascoltatore in un vortice di emozioni pian piano che Noemi rivela gli oggetti che riempiono la borsa di una donna, oggetti di cui a volte è impossibile liberarsi.

Fammi respirare dai tuoi occhi è la consapevolezza che la vita, in due, è un viaggio molto meno complicato che in solitaria: "Anche quando dai miei occhi perdo fiato e sono grigi, riesci sempre a darmi aria, basta solo che mi guardi". Sangiorgi scrive per Noemi una canzone uptempo che profuma di singolo estivo.

Con Amen il disco si addentra in abissi più cupi: le prime note di pianoforte trasmettono quasi inquietudine, ma sono presto interrotte da una più scanzonata chitarra acustica che la fa da padrona per la prima strofa. Con lo stesso senso di inquietudine si chiude il brano: "Siamo figli della stessa terra e siamo in guerra". Una preghiera rivolta a tutti, prima di tutto a se stessi, per cercare di recuperare la nostra umanità.

Devi essere forte riprende dove Amen ha lasciato: “Non avere paura di respirare arie che ti aprono verso mondi più segreti e dentro il nettare di quei mondi il futuro”. Un invito ad agire in prima persona per cambiarsi e migliorare. La penna è quella ispirata di Gerardo Pulli e l’arrangiamento è quello che più di tutti richiama Made In London, con cori, pianoforte e batterie che incalzano.

Idealista! in realtà è un ritratto della vita piuttosto reale e disilluso: “Stai fedele come un cane e intanto a quelli là non gliene frega un cazzo di te”. Diverte e fa venire voglia di muoversi questo pezzo scritto da Fossati che sottolinea l’importanza di fidarsi sempre del proprio istinto, paragonato ad un cane che abbaia per metterci in guardia.

I love you con il suo ritmo trascinato racchiude tutti gli ascolti blues dell’artista romana. È infatti l’unica canzone scritta da lei. “Mi sembra così strano sentirmi dire io ti amo”: dopo tante battaglie è quasi difficile accettare l’amore di qualcuno. Una canzone speciale per le sue sonorità, sonorità che solo una voce come quella di Noemi può permettersi di vestire con tanta credibilità.

Mentre aspetto che ritorni è un quadro tanto è evocativa. Due persone su un treno dove il tempo scorre e dal finestrino si può guardare il passato, fino a quando “la notte che sta per cadere sorprende a dimenticare” e la vita può ricominciare. Questa bellissima canzone d’amore è un singolo che ha tutte le carte in regola per diventare un successo.

Devi soltanto esistere è esplosiva: “Devi soltanto esistere, il resto più non conta, fidati dai, sarò quello che vuoi!”. La canzone più rock del disco che promette, in tour, tanti salti e tanta voglia di cantare a squarciagola.

Veronica guarda il mare è l’ultimo oggetto della scatola, ed uno dei più preziosi. È una domanda che tutti ci siamo fatti: che senso ha la vita se un giorno finirà? Le impronte saranno cancellate dal vento, anche il mare immenso finisce, e l’orizzonte, e l’amore… “Lei non sa bene se nuotare o lasciarsi andare”. La canzone continua ad esplorare questo dubbio, combattere o abbandonarsi?, fino a quando non si arriva all’ultima frase del disco: “Lei non si arrenderà, perché lei adesso…

E quel perché non importa nemmeno poi così tanto: l’importante è non arrendersi. Un disco che restituisce una visione grigia della nostra realtà: una visione che può essere luminosa se si ha qualcuno al proprio fianco e una realtà che, in fondo, può essere cambiata. Gli arrangiamenti curati da Celso Valli riescono a esaltare ogni sfumatura della voce di Noemi impegnata in questo disco a recitare testi importanti. Un album molto suonato che chiede di essere cantato a tutto volume nei teatri e nelle piazze.
Canzoni che non si limitano a rimanere in superficie, nelle orecchie, ma che si preoccupano di scavare in fondo, alla ricerca di quel cuore d’artista che si nasconde dentro ognuno di noi: un cuore coraggioso, ribelle, umano.

lunedì 2 novembre 2015

Dall'acqua nasce l'anima - Capitolo I

I

Dagli occhi di Lisbet

Su quel letto aveva spesso trovato rifugio. Quando il mondo le sembrava troppo difficile da affrontare, troppo veloce da inseguire, troppo complicato da capire, lei semplicemente si lasciava cadere su quel morbido materasso ed insieme al suo corpo sembravano sprofondare anche i problemi. Tutto finalmente si fermava e non c’era niente che potesse raggiungerla lì, nella sua camera. Adesso, quello stesso letto, sembrava aprirsi come una voragine sotto di lei ed in quel precipitare non c’era niente a cui potersi aggrappare per tentare di salvarsi. Niente.
Lisbet accarezzò la sua guancia con estrema lentezza e non appena con le dita l’ebbe percorsa tutta, l’accarezzò di nuovo e di nuovo ancora. Come aveva fatto a non accorgersene fino ad adesso? La verità era stata lì, sul suo corpo, per tutto questo tempo. Sul suo corpo, ma non sotto i suoi occhi.
Non tornerò mai più come prima.
Questa consapevolezza la stava dilaniando dall’interno. Come pretendeva che il mondo la accettasse così come era, se proprio lei, guardando il suo riflesso, ne era rimasta inorridita?
Si rigirò sul letto e affondò la testa sul cuscino che molte volte si era impregnato delle sue lacrime. Cominciò a piangere, ma non fu come le altre volte. Non si sentì più libera, più leggera, più spensierata. Si sentì disperata esattamente come poco prima.
«Lisbet?»
Suo padre aveva bussato un paio di volte alla porta, ma non se ne era nemmeno accorta. Lisbet fece finta di non sentire e cercò di frenare le sue lacrime nel tentativo di non fare rumore.
Vattene, papà, vattene.
Sentiva la sua presenza dietro quella robusta porta di legno chiusa a chiave, sentiva il suo respiro pesante come se potesse oltrepassare quei muri e sfiorare il suo collo.
«Lisbet?» ripeté un po’ più forte.
Tutte le lacrime frenate si erano accalcate in un nodo d’ira nel suo stomaco e improvvisamente afferrò l'abate-jour e la scaraventò con tutta la forza che aveva contro la porta. La lampadina che al suo interno stava emanando una luce stanca si ruppe in tantissimi pezzi che si riversarono al suolo. La stanza piombò nel buio completamente mentre nel silenzio si poteva udire il rumore di passi che si allontanavano.
Se io non posso essere come tutti gli altri, allora saranno gli altri ad essere come me.
Scostò leggermente la tenda e per un po’ stette immobile a scrutare il mondo al di là della sua finestra che le permetteva di vederne solo uno spiraglio. Se lei non poteva tornare come prima, neanche il mondo sarebbe stato più lo stesso.

* * *

Dagli occhi di Enna

Molte volte aveva pensato a come sarebbe stato il giorno in cui, finalmente, avrebbe dato una svolta alla sua vita. Lo aveva immaginato in miliardi di modi diversi e stravaganti, invece sarebbe stata una cosa semplice, come non l’aveva mai pensata.
Enna sfilò gli orecchini e li gettò a terra.
Era una donna sulla trentina. Era elegante e spesso, per essere sempre in ordine, rubava un’ora al suo sonno solamente per sistemare i suoi lunghi capelli castani: li pettinava con una spazzola anche quando erano perfettamente al loro posto. Sembrava quasi un gesto meccanico. Poi, ogni volta, dopo essersi presa cura di loro per tutto quel tempo faceva una cosa incomprensibile: li raccoglieva in uno chignon e li intrappolava con un fermaglio. Chi, vedendo l’intreccio di capelli sul suo capo, se la sarebbe mai potuta immaginare seduta davanti allo specchio mentre li pettinava e guardava assorta il suo riflesso? Chissà a cosa pensava poi veramente mentre la spazzola andava su e giù. Forse quello strano rituale era solo una scusa per fermarsi a pensare.
Enna strofinò una mano sulle sue labbra per pulirle dal rossetto.
Pensava a quel lontano giorno d’agosto dove, sotto le prime gocce di quella che si sarebbe rivelata una tempesta con i fiocchi, con due guance rosse come mele aveva regalato il suo primo bacio ad un ragazzino più piccolo di lei. Pensava a quel giorno, un po’ meno lontano, in cui, mentre un uomo le sussurrava all’orecchio “ti amo”, lei per la prima volta aveva fatto l’amore. O forse, più che alle cose che aveva fatto, pensava a quelle che non aveva ancora fatto o che avrebbe voluto fare: a quell’amico un po’ sfigato, così lo chiamavano, delle superiori con cui avrebbe sempre voluto parlare, ma mai l’aveva fatto per paura di essere etichettata come lui; a quegli allenamenti di calcio che aveva sempre dovuto osservare da dietro i cancelli con la scusa di avere una cotta per il capitano della squadra.
Enna cominciò a camminare e si sfilò la giacca.
Forse pettinava i suoi capelli e li ordinava perché era proprio quello che faceva con i suoi pensieri. Quando raccoglieva i capelli, allora raccoglieva anche i suoi pensieri e li cacciava via, in una parte profonda di sé, lontana. Enna sapeva che ovunque dentro di lei non era lontano abbastanza e che non c’era posto sicuro in cui chiudere quei pensieri, ed infatti la sera scioglieva i capelli e i pensieri tornavano a galla. Di giorno però doveva essere perfetta. Doveva essere l’Enna che tutti conoscevano, che tutti volevano vedere, che tutti dicevano di amare. Prima e dopo invece poteva provare ad essere Enna e basta.
Enna lasciò cadere la borsa sulla strada.
Ci provava, ma non era così facile. Era come recitare tre quarti della propria vita: ad un certo punto il personaggio che stai interpretando non è poi così diverso da quello che sei. Si confondono.
Enna slacciò l’orologio costoso mentre continuava a camminare.
Lavorava in ufficio anche se non le era mai piaciuto farlo. Era un lavoro onesto e le permetteva di mantenersi da sola e soddisfare qualche sfizio per lo meno. Avrebbe sempre voluto essere una stilista, ma questa era un’altra storia. Enna aveva frequentato il liceo perché i suoi genitori erano persone prestigiose e di conseguenze lei doveva essere una brava ragazza. Una brava ragazza non poteva non andare al liceo e così non aveva mai studiato moda. Dato che lavorava in ufficio ogni mattina indossava una gonna scura e una camicia chiara. Mai il contrario.
Enna si fermò un attimo e si sfilò i tacchi per poi lanciarli alle sue spalle.
Improvvisamente, però, si rese conto che la sua vita le andava un po’ stretta. Era come uno di quegli abiti che vestivano meravigliosamente sul manichino e la cui cerniera, quando si decideva di provarlo, faceva una fatica impensabile a salire. Era un abito bellissimo, sì, ma non addosso a te. Non se dovevi indossarlo una sera intera. Enna invece quella vita l’aveva indossata per anni: per questo si era tolta gli orecchini, si era sfilata la giacca, aveva lasciato cadere la borsa e l’orologio, era scesa dai tacchi e poi aveva iniziato a correre. Per quel giorno voleva essere diversa. Detto così è strano perché diversa, in realtà, era stata tutti gli altri giorni della sua vita, meno che quello. Quel giorno sarebbe stata sé stessa. Iniziò a correre e correre, ma la strada che ogni giorno la portava in ufficio sembrava più lunga del solito. Correva, ma quella strada sembrava così dannatamente diversa da quella di tutti i giorni. C’era sempre stata una pasticceria in cui a volte si fermava e poi un passaggio pedonale, adesso invece era solo strada che si srotolava in avanti. Strada e basta, come se l’unica cosa che contasse fosse percorrerla e non ci fosse tempo per fermarsi a fare altro. Tutto era cambiato improvvisamente.

Mentre correva era stata avvolta da un sottile strato di nebbia e si era sentita completamente sperduta. Era sicura però di dover continuare lungo quella strada.
Era passato tanto di quel tempo che non avrebbe saputo dire se fosse passata un’ora o più, quando finalmente la foschia cominciò a disperdersi e qualcosa cominciò ad emergere in lontananza. Un cancello alto e maestoso si ergeva davanti a una città che non aveva mai visto. Tutto quel mondo, in realtà, le sembrava di non averlo mai visto. Ora che finalmente riusciva a vedere, si accorse che la strada sotto ai suoi piedi era in ciottoli bianchissimi ed era tanto pulita che Enna avrebbe giurato non ci fosse mai passata neanche una macchina. A costeggiarla c’erano prati dall’erba verdissima intervallati da maestosi alberi. All’ingresso del cancello si trovavano due uomini – probabilmente soldati – che stonavano con tutto ciò che li circondava. Quella strada, quei prati, quel cancello sembravano far parte della sceneggiatura di una dolce fiaba, ma quegli uomini sorreggevano una lunga lancia minacciosa ed erano rinchiusi in un’armatura di ferro. Enna si avvicinò a loro timidamente: non sapeva dov’era arrivata e non sarebbe stata capace di tornare indietro, ma non era spaventata. Era stupita per lo più.
«Nome, prego» esordì l’uomo a destra rivolgendole uno sguardo che fece capire ad Enna che doveva fermarsi.
«Enna» rispose pacata soffermando il suo sguardo sull’uomo che le aveva rivolto la parola.
L’altro soldato abbassò lo sguardo su un grosso libro poggiato su un alto leggio in legno. Scorse un paio di nomi prima di annuire con il capo.
«Sì, c’è il suo nome. Sarebbe dovuta arrivare tra sette minuti a dire la verità. La sua vita doveva proprio far schifo se si è messa a correre così veloce per sfuggirle, eh?» si rivolse a lei l’uomo. La sua voce era tanto simile a quella dell’altro soldato che, se Enna fosse stata di spalle, sicuramente non sarebbe riuscita a riconoscere chi dei due avesse parlato.
«Io... no... avevo solo paura, non riconoscevo la strada».
«Cercano tutti di negarlo, ma non si preoccupi. Qui finalmente avrà una vita dignitosa. La vita che merita» rispose pacatamente l’uomo.
«La sua nuova abitazione si trova nella periferia della città, ai piedi del monte. C’è il suo nome sopra, per cui la troverà di sicuro» concluse poi il soldato che le aveva inizialmente rivolto la parola.
«Dev’esserci un fraintendimento. Io non volevo recarmi qui, stavo andando a…»
Avete mai provato la sensazione di aver camminato per così tanto tempo da esservi dimenticati sia da dove eravate partiti, sia dove avevate intenzione di arrivare? Probabilmente no. Se ci muoviamo è per arrivare da qualche parte: c’è chi deve presentarsi al suo primo appuntamento, chi deve scattare una fotografia, chi deve correre per non perdere l’aereo che lo porterà a vivere il viaggio che ha sempre desiderato. Il giovinetto, dopo essersi guardato a lungo allo specchio per assicurarsi di essere perfetto, sicuramente non si dimenticherà la fanciulla che lo aspetta al parco; il fotografo, dopo aver cercato la luce e la posizione adatta, non si dimenticherà cosa voleva immortalare nella foto e il povero operaio, dopo una vita di risparmi, non si chiederà, una volta sull’aereo, dove sta andando.
Invece Enna quella sensazione la stava provando.
«Signorina, nessun fraintendimento. Se non vuole passare la notte fuori dai cancelli, la invito ad entrare in città e cercare la sua abitazione. Non appena l’avrà trovata le consiglio di recarsi nella piazza principale: è meglio iniziare a conoscere subito le nostre leggi per evitare spiacevoli inconvenienti. Le prigioni della regina non sono il più ameno dei posti».
I due uomini afferrarono le ante del cancello per le sbarre e le aprirono invitandola ad entrare. Enna inspirò profondamente e ringraziò i due uomini prima di varcare la soglia del cancello e sentirlo chiudersi alle sue spalle.
In lontananza riusciva a scorgere il monte che i due soldati avevano nominato poco prima e, in cima, le pareva di vedere un castello. La strada davanti a sé invece era dritta e di tanto in tanto si diramava in altre piccole stradine. Neanche lei sapeva perché si era arresa tanto facilmente e aveva accettato di rimanere in quel posto. Stava percorrendo la strada principale quando un odore delizioso stuzzicò il suo olfatto: si fece guidare e imboccò un sentiero sulla sua destra. Proveniva da un banchetto di dolci sul ciglio della strada. Enna si avvicinò lentamente mentre sentiva il suo stomaco brontolare per la fame. I suoi occhi cominciarono a vagare in mezzo a tantissimi dolci diversi: biscotti dai più svariati gusti, croissant, pasticcini.
«Nuova, vero?» disse un uomo alle sue spalle.
Enna si voltò e la prima cosa che incrociò furono un paio di occhi verdissimi, come mai aveva visto nella sua vita, che la stregarono. Poi, quando riuscì a liberarsi dall’incanto, vide una pelle liscia e leggermente abbronzata, capelli biondo cenere non troppo lunghi ed un sorriso dai denti bianchissimi.
«Sono qui da cinque minuti. Come ha fatto a capirlo?» domandò.
«Chiunque avrebbe già preso almeno un biscotto da questo banchetto.»
«Ma non ho soldi con me» replicò Enna.
«Non servono soldi qui. Puoi prendere tutto quello che vuoi» rispose sorridendole ancora una volta mentre si avvicinava di un passo ai dolci. Ne afferrò due identici e gliene porse uno. Enna lo strinse tra le mani e lo guardò un attimo prima di assaggiarlo. Non avrebbe saputo dire cos’era, ma sicuramente era ricoperto dalla cioccolata più buona che avesse mai mangiato nella sua vita.
«Se è appena arrivata forse è meglio che qualcuno la aiuti. Io il primo giorno l’ho passato a vagare senza meta e ho dormito su una panchina. Vorrei evitarglielo, se possibile.»
«Accetto volentieri signor…»
«Ren. Ma non mi chiami signore, la prego. Mi fa sentire vecchio e credo di avere più o meno la sua età» disse ridendo per qualche secondo.
«Piuttosto che ne dice di darci del tu?» concluse.
«Certo. Allora, Ren, i soldati all’ingresso mi hanno detto che la mia abitazione si trova ai piedi del monte, in periferia.»
«Ti accompagno volentieri, dato che vivo da quelle parti, se mi riveli il tuo nome.»
«Enna.»
«Bene, Enna… prima di trovare casa tua, che sicuramente è una cosa importante, credo di doverti dire un paio di cose importanti su questo posto» cominciò prima di incamminarsi nuovamente verso la strada principale insieme a lei.
«La prima è che questo mondo si chiama Apparenza. In realtà non è il suo vero nome, ma io lo chiamo così. La seconda cosa è che è impossibile scappare da qui. Nessuno ci è mai riuscito fino ad oggi.»
«Questo posto sembra un sogno. Sono arrivata ed ho già una casa, mentre nel mio mondo comprarne una è una missione. Perché mai qualcuno vorrebbe andarsene da qui?» disse abbozzando un sorriso scherzoso.
«Lo capirai presto Enna, lo capirai presto» disse rispondendo al sorriso.
«Sarò io il primo ad andarmene di qui. Nessuno ci è mai riuscito, ma io ce la farò» aggiunse poi.
«Non stai bene qui?» domandò Enna mentre tornavano sulla strada principale.
«Non si sta troppo male, lo ammetto.»
«Se non stai male, allora vuol dire che stai bene» replicò Enna sicura di sé.
«Dici? La felicità per te è semplicemente assenza di dolore?» domandò Ren incrociando gli occhi di lei. Per la prima volta si rese conto che erano di un blu così intenso che si aveva la sensazione di precipitarvi dentro.
«Einstein diceva che l’oscurità non è altro che assenza di luce e che il freddo non è altro che assenza di calore. La felicità, allora, è assenza di dolore» rispose ricambiando lo sguardo.
Lo sguardo di Ren si fece pensieroso ed assente mentre la sua mente macinava idee e idee e cercava una risposta convincente a quell'affermazione.
«Non penso che sia così... credo che sia un modo di vedere la vita un po' cinico e triste. Ma se metti in mezzo Einstein chi sono io per ribattere? Per questa volta mi hai fregato» ammise abbozzando un sorriso.
Anche Enna sorrise. Non lo fece solo perché era riuscita a far prevalere in un certo senso il suo pensiero, ma perché Ren forse non se ne sarebbe andato. Quando aveva visto i suoi occhi aveva pensato che fossero la cosa più bella del mondo e se lui non sapeva rispondere a quella semplice affermazione, forse, non se ne sarebbe andato.
«Comunque, ti stavo dicendo... In cima al monte, come avrai notato, si trova il castello della regina Lisbet. È lei che regna qui e nessuno osa disobbedirle. Quelli che hai visto all’entrata sono i suoi soldati. Ha un piccolo esercito personale. Non ci sono mai guerre qui, anche perché dubito esistano altre città oltre alla nostra in questo mondo. Si serve dei suoi soldati per punire chi non rispetta le sue regole. Perciò, prima di portarti nella tua casa, penso che tu debba vedere con i tuoi occhi quali sono queste regole.»
«Nel mio mondo si chiamano leggi» rispose Enna.
«Chiamarle leggi sarebbe un insulto. Sono piuttosto capricci della regina, te ne accorgerai tu stessa» disse Ren affrettando il passo.
Erano giunti nella piazza principale della città. La prima cosa che notò Enna furono due enormi fogli – che sembravano pergamena – pendere al centro della piazza. Ai lati, invece, si ergevano altissime statue di un uomo e una donna. Le loro figure erano scolpite nel marmo e ricordarono ad Enna quelle che, in dimensioni assai minori, erano tante famose nel suo mondo. Le loro mani sorreggevano una lunghissima asta dorata ed era lì che le due enorme pergamene erano state appese.
Enna si avvicinò di qualche passo e, anche se il sole glielo stava rendendo un compito difficile, cominciò a leggere ciò che vi era scritto:

  1. Dal giorno del proprio arrivo si hanno a disposizione sette giorni di tempo per trovare un impiego.
  2. È vietato uscire di casa dalle ore 22.00 alle ore 06.00 del mattino seguente.
  3. È obbligatorio indossare gli abiti del proprio armadio.
  4. È vietato avere degli specchi in casa.
  5. Due persone che vogliono sposarsi devono presentarsi al cospetto della regina per riceverne il consenso.
  6. Non sono tollerati capelli bianchi o rossi.

Dopo aver letto quella stupida regola, la prima cosa che fece Enna, quasi senza accorgersene, fu spostare il suo sguardo su Ren. Sapeva benissimo che i suoi capelli non erano né bianchi né rossi, ma vedere il loro colore chiaro la rassicurò.
«Queste regole sono assurde…» disse Enna con aria contrariata.
«Mi sembrava di avertelo detto» rispose Ren. Continuava a fissare le pergamene ed Enna ebbe la sensazione che stesse cercando di reprimere l'istinto di stracciarle e farle a pezzi.
«Dai, andiamo. Non starò qui ad aspettare che tu le legga tutte dato che, come puoi vedere, sono un centinaio. Avrai tempo. Ti aiuto a cercare casa tua» concluse.
Enna annuì e lo seguì mentre si affrettava ad uscire dalla piazza.
«Un’altra cosa che devi assolutamente sapere è che qui non esiste acqua.»
«Non esiste acqua?» ripeté balbettando Enna.
«In realtà esiste, ma la regina non la voleva nel suo regno, per cui è stata assolutamente bandita. Poco fuori città c'è un'enorme distesa di terra oltre cui nessuno si è mai spinto... si dice che un tempo lì ci fosse l'oceano.»
«E le persone come si dissetano quando hanno sete?»
«L’acqua non è l’unica bevanda al mondo, dico bene?» replicò Ren mentre un sorriso si distendeva sulle sue labbra.

Ci avevano impiegato quasi un’ora per trovare la casa di Enna. Avevano perlustrato tutte le vie della periferia senza ottenere alcun risultato e quando, alla fine, avevano messo piede nella strada in cui abitava Ren, ci avevano messo una manciata di secondi a trovarla. Era proprio di fianco alla sua.
«…e quindi hai una settimana di tempo per provare a renderti utile alla società. Ti consiglio di riuscire a farlo il prima possibile. Le prigioni del castello sono sicuramente meno confortevoli di questa bella casa» concluse Ren fermandosi davanti alla tanto ricercata abitazione.
Enna rimase affascinata a guardarla. Era molto più di ciò che si sarebbe aspettata. Non si parlava di una misera stanza o di un solo appartamento: era una casa tutta intera solo per lei. Al muro, di fianco alla porta, era affissa con un chiodo una targhetta in legno su cui, con bella grafia, era stato scritto il suo nome, come le avevano detto i soldati all’ingresso.
«Bé, non entri? Non sei curiosa?» la incitò Ren.
Enna rispose con un pacato sorriso e si avvicinò alla porta. Fu inutile stringere la maniglia ed abbassarla poiché era chiusa e non si mosse di un millimetro quando Enna tentò di spingerla.
«Che stupida, non ho le chiavi» disse lei sospirando.
«Da qualche parte ci sono di sicuro. Prova a guardare nella borsa… ricordi che ti ho detto che la prima notte ho dormito su una panchina? Bé, quando il giorno dopo mi sono svegliato, mi sono accorto di avere la chiave proprio nella mia tasca. Avrei preferito scoprirlo prima.»
Ren rise per qualche secondo scoprendo una dentatura perfettamente bianca.
Enna infilò una mano dentro la borsa e cominciò a frugare cercando di spiare all’interno. Un portafoglio. Un rossetto. Uno specchietto. Una chiave. La afferrò e la tirò fuori per poi inserirla nella serratura e farla girare un paio di volte. Un rumore metallico l’avvertì che finalmente la porta era aperta, così la spinse appena.
«Entri?» chiese Enna cercando lo sguardo di Ren. Lui sembrò evitarlo.
«È stato veramente un piacere aiutarti, ma devo proprio andare. Ci vediamo, tanto abito qui di fianco a te» replicò riservandole l’ennesimo sorriso.
«Oh… certo. Ci vediamo.»
Enna sentì la delusione colmarla. Forse era stato da stupidi, ma aveva immaginato che, una volta arrivati, Ren sarebbe entrato in casa e che lei lo avrebbe fatto accomodare nel salotto che non aveva nemmeno mai visto. Sarebbe andata in cucina a cercare un po’ di vino e ne avrebbe riempito due bicchieri da svuotare in sua compagnia. Forse la sua fantasia aveva viaggiato troppo. Ren non era altro che un uomo gentile che l’aveva aiutata vedendola in difficoltà… eppure ad Enna sembrava di fiutare nell’aria che qualcosa fosse rimasto incompiuto. Forse neanche Ren voleva andarsene, eppure lo aveva fatto.
Si richiuse la porta alle spalle e cominciò a scoprire la sua nuova casa.