V
Per
quanto avessero provato a tenersi stretti, non c'era stato niente da
fare. Due soldati li avevano divisi e altri due avevano cominciato a
prendere a calci Ren. Enna, con gli occhi gonfi di lacrime,
continuava a voltarsi, a urlare, e guardare quello spettacolo
pietoso. Gli uomini la strattonavano e la obbligavano ad avanzare
nonostante i suoi piedi, anziché sollevarsi passo dopo passo,
strisciassero. Si fermarono davanti ad un paio di scalini. Enna era
un peso morto tra le braccia dei soldati e schifata dall'idea di
dipendere da quegli uomini si decise a salirli lentamente.
Dall'oscurità
dei sotterranei, quell'enorme stanzone le sembrò troppo luminoso. Le
mura erano bianche, così come le grande mattonelle del pavimento e i
centinaia di tubi che si intrecciavano nell'aria insieme a strani
fili. Addossate alle pareti c'erano cabine e cabine e la maggior
parte di quelle custodiva qualcuno. Uomini, donne, bambini, tutti
attaccati a quei tubi spaventosi. Enna sapeva di cosa si trattava.
Ren gliene aveva parlato.
«Lasciatemi
andare!» iniziò a protestare.
Aveva
sempre saputo, fin da quando la regina aveva visto i suoi occhi, che
il suo destino sarebbe stato quello. Ma fino a quando era con Ren,
fino a quando era chiusa nella sua cella, si era potuta illudere.
Adesso non poteva più.
«Lasciatemi!»
ripeté agitando con forza le spalle. I due soldati la tennero più
saldamente, ma Enna cominciò a dimenarsi con più energia.
«Perché?
Perché? Cosa volete da me, lasciatemi!» urlò.
Gli
uomini cominciarono a stringere così forte che il sangue per poco
non smise di scorrere nelle vene.
«Vi
sembra il modo di trattare la mia ospite? Suvvia, liberatela... dove
credete possa andare?»
Enna
si voltò e, alle sue spalle, incrociò lo sguardo, stranamente
tranquillo, della regina. Le urla del giorno prima sembravano solo un
ricordo se si guardava a quel viso perfetto, liscio, ordinato. Quelle
parole erano una presa in giro bella e buona e le ricordavano che non
c'era via di fuga.
I
soldati, intimoriti dallo sguardo imperturbabile di Lisbet,
allentarono la presa.
«Non
ho detto di allentare la presa. Ho detto di lasciarla. Ha ragione,
sapete, a chiedere perché. Passerà la sua intera vita in una di
quelle celle e dirle il perché è il minimo che io possa fare, dico
bene Enna?» domandò la regina sorridendo. Non si aspettava una
risposta, ovviamente. Il fatto che Lisbet sapesse il suo nome la
innervosiva. La faceva sentire nuda, come se veramente adesso potesse
controllarla.
Enna
scrollò le spalle non appena gli uomini tolsero le loro mani. Un
cenno di Lisbet e si dileguarono con un cenno del capo.
«È
buona educazione rispondere alle domande. Per caso sei muta?»
«No,
non sono muta» replicò secca Enna sostenendo lo sguardo di Lisbet
che non faceva altro che studiare quegli occhi blu, desiderandoli più
di ogni altra cosa al mondo...
«Sai,
Enna, se io ti strappassi gli occhi e li sostituissi ai miei
probabilmente potrei avere Lloyd tutto per me. Potrei averlo con la
certezza che nel frattempo lui non stia pensando a quel blu
incantevole. Se è rimasto affascinato da te è sicuramente per i
tuoi occhi, unica cosa che ti rendono minimamente interessante... ma
non è questo ciò che voglio fare. L'amore è un piacevole diletto,
lo ammetto, ma niente di più. Chi è schiavo dell'amore è debole.
Io voglio altro da quegli occhi...»
«Il
loro colore» replicò Enna.
«Forse
ti avevo sottovalutata... vedo che sei perspicace. Sì, voglio quel
colore. E sai perché?» domandò avvicinandosi di un passo a lei
mentre un nuovo sorriso le scavalcava le labbra.
«No,
non lo so» rispose Enna rimanendo immobile.
«Oh,
è ovvio che non puoi saperlo. Ma te lo racconterò mia cara, perché
ti sei rivelata più utile di quanto avessi mai potuto immaginare. La
tua misera vita ha un senso adesso, te ne rendi conto?»
Un
altro passo verso Enna.
«E
non lo potrai dire a nessuno perché marcirai qui dentro per il resto
della tua vita» sussurrò. Le sue labbra quasi sfioravano l'orecchio
di Enna. Glielo sussurrò come fosse un segreto, una cosa che mai
nessuno avrebbe saputo. E in effetti... tolti Ren, e forse Ruth, chi
se ne sarebbe accorto? Nessuno.
«Ero
una bambina... nient'altro che una bambina. Ricordo le pareti bianche
dell'ospedale, il letto scomodo, i muscoli che facevano male. Dormivo
molto e sognavo sempre la stessa cosa: una scala piazzata in mezzo al
vuoto. E io correvo. Sudavo per la fatica, ma continuavo a correre e
inizialmente non c'era un perché. Poi mi accorgevo che gli scalini
più lontani avevano iniziato a prendere fuoco e iniziavano a
rincorrermi insieme alle fiamme fino a quando non c'erano più
scalini da salire: cadevo. Bruciavo. Passai alcuni giorni in ospedale
fino a quando i miei genitori non decisero di portarmi fuori.
Volevano portarmi al mare. Ci volle un'oretta per arrivare, non di
più. Stavamo avanzando verso la spiaggia, sotto il sole, quando ci
ricordammo di aver lasciato l'ombrellone in auto. Tornammo indietro e
mi avvicinai al finestrino per guardare dentro, ma quello che vidi fu
altro. Il mio riflesso. Vedevo il mare dietro di me, il sole, gli
alberi. Ma, più di tutto, il mio viso. Metà del mio viso, questa
qui» disse accarezzandosi la guancia sinistra «era bruciata.
Sfregiata. Capii che non era solo un sogno il mio e improvvisamente
ricordai la mia stanza da principessa in fiamme. Era successo
davvero. I bambini non volevano più giocare con me, mi ignoravano e
mi deridevano. Con il passare degli anni divenne insostenibile.
Tornai al mare, lo stesso dove i miei genitori mi avevano portato
tanti anni prima, e cercai di uccidermi. Sott'acqua cercavo dentro di
me ogni briciola di coraggio per smettere di respirare e lasciare che
l'acqua mi uccidesse. Ma alla fine respirai e tornai in superficie.
Capisci perché l'acqua non c'è in questo mondo? Non mi ci voglio
vedere riflessa. Mi ricorda quella povera piccola e patetica Lisbet
ignorata e derisa da tutti che prova ad uccidersi. Ma tu... tu mi
libererai da questa paura, Enna. Lo sai perché l'acqua riflette
tutto? Perché in realtà non ha un colore. È trasparente e non
appena vede un immagine o un colore, invidiosa, lo ruba, se ne
appropria, e poi te lo restituisce con un riflesso.»
«Tu
sei pazza» disse Enna indietreggiando di un passo.
«Forse...
ma non mi interessa. Questo è il mio mondo, Enna. L'ho creato io.
Qui nessuno mi evita come una lebbrosa, tutti mi amano e mi
rispettano. Qui io sono la regina e tu non sei altro che una
sguattera. Qui vigono le mie regole. Tu mi libererai da questa paura,
Enna, perché i tuoi occhi daranno un colore all'acqua e allora non
sarà più in grado di riflettere niente. Non potrà ricordarmi chi
sono veramente e tutto sarà finalmente perfetto.»
«Ti
sbagli, Lisbet. Io non ti libererò da nessuna paura e lo sai perché?
Perché non è l'acqua che ti fa veramente paura... l'acqua riflette
ciò che sei realmente. E se quello che vedi ti spaventa, non è
dell'acqua che hai paura, ma di te stessa» disse Enna recuperando il
passo che poco prima aveva fatto indietro. Non le importava che
quella fosse la regina. Non aveva più niente da perdere ormai.
«Stai
zitta!»
«Perché
dovrei stare zitta? Cos'altro puoi farmi? Mi ucciderai? No, non
credo... senza i miei occhi non potrai neanche illuderti di esserti
liberata della tua paura... non potrai fingere che tutto sia
perfetto... potrai anche dirlo, ma in fondo saprai che non è così,
Lisbet. Nessuno ti ama realmente!» continuò Enna. Aveva capito di
aver colpito il bersaglio.
«HO
DETTO STAI ZITTA!»
urlò la regina.
Immediatamente
i due soldati appostati fuori dalla stanza entrarono e si
avvicinarono, in attesa di ordini.
«Portatela
nella sua cella e preparate i dispositivi» ordinò socchiudendo gli
occhi alla ricerca di serenità.
I
due soldati la immobilizzarono con forza e cominciarono ad
allontanarla per quanto Enna si dibattesse.
«SEI
UN'ILLUSA LISBET! DAI ALL'ACQUA IL COLORE DEI MIEI OCCHI ED OGNI
VOLTA CHE LA VEDRAI NON FARAI ALTRO CHE PENSARE ALLE MIE PAROLE E
PENSARE A QUANTO ABBIA RAGIONE!»
gridò Enna nonostante Lisbet stesse accennando ad andarsene. Voleva
ferirla il più possibile prima di essere rinchiusa in quella cella,
voleva spezzare tutte le sue certezze.
«BASTA!
BASTA! FATELA SMETTERE!»
Uno
dei soldati le tappò la bocca e, con più difficoltà, continuarono
a trascinarla verso la cella che l'avrebbe privata dei suoi occhi.
L'avevano
lasciata chiusa lì dentro tutta la notte. Quelle ore di attesa la
stavano consumando e stavano spingendo anche lei sull'orlo della
pazzia. Come avrebbero preso il colore dei suoi occhi? Glieli
avrebbero strappati via? L'avrebbero addormentata o sarebbe stata
cosciente? Sarebbe potuta uscire ogni tanto da quella cella? A forza
di stare seduta già sentiva le gambe indolenzite. Oltre il vetro
della sua cella e della grande finestra in fondo alla stanza le prime
gocce d'acqua avevano cominciato a cadere. Tutto era finalmente
pronto. Qualche ora e quell'acqua avrebbe avuto il colore dei suoi
occhi. Le sembrò addirittura di sentire il ticchettio della pioggia
contro la finestra, nonostante metri e metri di distanza.
La
notte si era trascinata più lentamente che mai ed Enna non era
riuscita a chiudere occhio. Non si sentiva particolarmente stanca
però, forse perché quelle poche ore di sonno, con la mano vicino al
cuore di Ren, l'avevano ristorata come non mai.
Un
tocco gelido la fece trasalire. Il suo sguardo corse rapido alle
braccia da cui il brivido era partito e vide due cinghie – uscite
da quella seduta – stringersi attorno agli avambracci legandola
saldamente a quel posto. Qualche secondo dopo altre cinghie fecero
aderire il suo petto allo schienale e immobilizzarono il suo capo. Il
momento era arrivato. Sentì qualcosa strisciare sopra la sua testa e
si immaginò tutti i fili meccanici, che aveva visto pendere dalla
sua seduta, scendere lentamente su di lei. Il fatto di non potersi
più muovere la terrorizzava più di qualsiasi altra cosa. Voleva
vedere come quei macchinari si stavano preparando, come stavano
tramando contro di lei. Davanti ai suoi occhi, infine, si ritrovò
due piccole scatolette di metallo. Per un po' rimasero ferme,
esattamente di fronte ai suoi occhi, come a fissarla. Poi,
contemporaneamente, ne uscirono due sottilissimi aghi che
cominciarono ad avanzare inesorabilmente verso di lei. Si aspettava
un dolore impensabile e invece avvertì solamente un pizzico quando
lentamente penetrarono la sua iride e presero a nutrirsi di quel blu
mare. Era la fine dei giochi. La regina aveva vinto. Con quegli aghi
negli occhi non poteva nemmeno sbattere le palpebre. Per i primi
minuti versò qualche lacrima, poi ci fece l'abitudine. Quella
sarebbe stata la sua vita da quel momento in avanti? Costretta a
fissare la porta della sua cella nella speranza di vederla
oltrepassata da Ren o da Ruth? Una vita piena di false illusioni? Non
aveva nemmeno la forza di sperare. La porta, però, lentamente si
aprì. Contro ogni previsione. Era passato così poco tempo e già
aveva visite. Si aprì sempre di più fino a rivelare la persona che
stava dall'altra parte: Lloyd. Stette per un minuto buono fermo sulla
soglia, facendo oscillare il suo sguardo tra quel macchinario
diabolico e gli occhi – ormai senza colore – di Enna. La pioggia,
al di là di tutti quei vetri, aveva cominciato a ricoprire le strade
con il suo nuovo colore blu intenso. Non avrebbe più riflesso
niente, ma era sempre acqua.
«Cosa
ci fai qui?» domandò Enna impassibile. Non le interessava che Lloyd
fosse lì e in realtà non sapeva nemmeno perché gli avesse posto
quella domanda. In parte era colpa sua se lei si trovava legata a
quella postazione. Aveva capito che ormai non c'era nessuna speranza
a cui aggrapparsi e qualsiasi cosa Lloyd avesse detto non le sarebbe
servito a nulla. Da in ora avanti gli avvenimenti le sarebbero
scivolati semplicemente addosso. Il macchinario la costringeva a
tenere gli occhi dritti davanti a sé, fissi in quelli di Lloyd. Le
sarebbe piaciuto rivolgerli altrove, forse perché non tollerava
l'idea che quell'uomo che era stato stregato dai suoi bellissimi
occhi blu mare ora si trovasse davanti a uno sguardo incolore.
Spento.
«Una
notte nella camera da letto può offrire infinite possibilità...»
rispose spostando lo sguardo, come se se ne vergognasse. L'uomo che,
anche solo per qualche ora, aveva conosciuto Enna non le aveva dato
l'impressione di poter fare una cosa del genere. Eppure lo aveva
fatto e solo per entrare in quella cella. Solo per vedere lei.
«Non
dovevi disturbarti. Come vedi dei miei occhi non è rimasto più
niente.»
«Pensi
che io sia qui per i tuoi occhi? E poi... ti sbagli. Si riesce ancora
a vedere in profondità... si vede cosa pensi, si sente cosa provi.
Mi odi, vero?» domandò riportando lo sguardo su di lei.
«Perché
non dovrei?»
«Devi
credermi, Enna, non le ho detto nulla di te. Sapevo che se avesse
visto i tuoi occhi ti avrebbe fatto questo. Non lo avrei mai
permesso.»
Enna
si prese qualche secondo per studiare quell'espressione così
sincera, quei capelli stranamente disordinati e quello sguardo così
supplichevole.
«Eppure
eccomi qui. Voglio aiutarti, Enna. Te ne vuoi andare da questo mondo,
vero?»
Enna
rimase spiazzata da quella domanda.
«Perché
me lo chiedi?»
«Te
l'ho detto... i tuoi occhi sono quelli di prima e raccontano molto di
te. L'ho capito subito, dal modo in cui hai volto altrove lo sguardo
quando sono sceso dalla carrozza, dal modo in cui ti mangiavi le
unghie su quel divanetto, dal modo in cui parlavi, ti muovevi e
pensavi sempre ad altro anche mentre parlavi con me, come se la tua
mente, ogni secondo, stesse valutando le possibili vie di fuga»
disse Lloyd accennando un sorriso.
«Io...
sì, ci ho pensato tante volte, ma ormai che senso ha parlarne? Non
me ne andrò mai di qui.»
«Forse...
ma farò quanto mi è concesso per aiutarti» rispose Lloyd.
Si
alzò in piedi e, da sotto la cintura, afferrò l'elsa di un pugnale.
Guardò oltre il vetro della cella per assicurarsi che non ci fosse
nessuno, come aveva espressamente richiesto.
«Lloyd,
fermati. Cosa diamine pensi di fare? Ti prenderanno!» sussurrò
frettolosamente Enna.
«Non
se scappo con te» rispose con un altro sorriso.
La
lama, con un colpo netto e deciso, tranciò tutti i fili che
pendevano dal tubo principale. Immediatamente Enna sentì la presa
delle cinghie farsi debole sulle sue braccia e i due spaventosi aghi
che erano penetrati nel suo occhio si ritrassero, come spaventati.
L'oceano riempì nuovamente i suoi occhi, circondando con tenerezza
l'isola che era la sua pupilla. Era libera.
«E
ora?» domandò Enna terrorizzata. Fino a poco prima era stata
sprezzante del pericolo perché non aveva possibilità, non aveva
niente da perdere. Ma ora poteva essere libera. Poteva liberare Ren.
«Scappiamo»
rispose Lloyd come fosse la cosa più facile del mondo.
Uscirono
velocemente dalla cella. Enna guardò con indecisione tutte le altre
piccole gabbie. Quanto le sarebbe piaciuto entrare e liberare, ad uno
ad uno, tutte quelle povere persone. A cercare bene avrebbe trovato
anche quella povera bambina, Alison, che aveva visto portare via. Ma
come avrebbero fatto a scappare tutti insieme? Non ci sarebbe stata
libertà né per lei, né per tutti loro.
Sapevano
che, fuori dalla stanza, sicuramente dei soldati stavano facendo la
guardia. Lloyd pose l'indice sulle sue labbra facendo cenno ad Enna
di non fare il minimo rumore e di fermarsi lì dov'era. Con
noncuranza oltrepassò la soglia facendo un cenno del capo ai due
soldati che ricambiarono. Non appena i loro capi si chinarono, Lloyd,
sfruttando l'effetto sorpresa, sferrò due pugni che fecero rovinare
al suolo i due uomini. Poi, prima che potessero riprendersi, iniettò
nella loro carne qualcosa che li mise a tappeto completamente. Mentre
Enna osservava la siringa spingere nel collo di uno dei soldati, notò
che dalla sua cinta pendeva un mazzo di chiavi. Le prigioni. Ren.
«Non
posso andarmene di qui senza una persona. È nelle segrete, ci vorrà
solo un minuto con queste» lo implorò Enna sfilando il mazzo al
soldato.
Lloyd
si guardò intorno titubante.
«Dai,
facciamo in fretta! È questione di minuti che si accorgano di noi!»
Enna
ripercorse a ritroso tutta la strada che proprio quei due soldati le
avevano fatto fare strisciando i piedi per terra. Discese i pochi
scalini e, raggiunta la cella di Ren, cominciò a infilare ogni
chiave nella serratura.
«Che
cavolo stai facendo?» sussultò Ren nel vederla lì. La sua maglia –
strappata in più punti – lasciava intravedere i tagli ancora
freschi sulla schiena.
«Ce
ne andiamo... non era il tuo sogno?» disse Enna agitata provando un
altro paio di chiavi.
Ren,
seppure a fatica, si alzò e si aggrappò alle sbarre. Riservò una
breve occhiata interrogativa a Lloyd, ma quello non era decisamente
il momento per porre delle domande. La serratura, finalmente, si
sbloccò e anche Ren fu libero.
Enna
si pose davanti ai due. Era quella che conosceva il castello meglio
di tutti.
«E
ora da dove usciamo?» domandò lei risalendo gli scalini.
«Speravo
me lo dicessi tu!» replicò Lloyd allarmato. Il suo piano si fermava
all'obiettivo “Liberare
Enna dalla sua cella”.
Non aveva progettato anche il seguito.
«Il
buco nel muro!» esclamò Ren.
Enna
annuì convinta e con passi rapidi e decisi cominciò a farsi strada
in quei livelli sotterranei. Quando vi era stata condotta la sua
mente era offuscata da mille pensieri, ma concentrandosi riuscì a
ricostruire tutta la strada a ritroso fino a quando non emersero
nuovamente in uno dei corridoi del castello. A loro favore si
schierava il fatto che nessuno sapeva che Enna fosse stata
prigioniera. Lisbet aveva tentato di nasconderlo, per quanto
possibile, per mantenere il titolo di regina buona e magnanima. Enna
cominciò a muoversi a passo normale, con i due uomini appresso. Di
tanto in tanto si guardava attorno e quando incontrava lo sguardo
stranito delle sue compagne accelerava. Raggiunse la porta che dava
all'esterno e furono fuori.
«Il
giardino è sempre perlustrato dai soldati, specialmente da quando
sono venuti a conoscenza di quella breccia nel muro, quindi... pronti
a correre?» sussurrò Enna voltandosi.
Lloyd
annuì con convinzione, mentre Ren rimase impassibile. Le ferite
ancora gli provocavano dolore, ma quella era una questione di vita o
di morte.
«Ora!»
Tutti
e tre presero a correre verso le mura. Erano a metà tragitto quando,
alle loro spalle, un soldato cominciò ad urlare. Impegnati nella
corsa com'erano non ebbero neanche modo di realizzare cosa l'uomo
avesse detto, ma voltandosi, videro che avevano un paio di soldati
alle calcagna. Il loro vantaggio, tuttavia, era notevole. La pioggia
– che continuava a cadere, incessante – aveva bagnato il suolo e
correre si faceva sempre più faticoso nelle zone fangose. Giunta al
cumulo di pietre Enna si fermò ed aspettò – per una manciata di
secondi - che Ren la raggiungesse.
«Tu,
sei ferito! Vai per primo» ordinò Enna.
Ren
avrebbe voluto controbattere, ma erano secondi a separarli da quei
soldati. Senza obiettare si issò sul cumulo di pietre e, aiutato
dalla spinta degli altri due, fu al di là del muro.
«Ora
tu!» disse Lloyd incitando Enna a salire.
Senza
farselo ripetere Enna salì lungo l'ammasso di pietre rese scivolose
dall'acqua. Un paio di volte rischiò di cadere, ma infine riuscì a
mettere una gamba al di là del muro. Si fermò lì a metà,
allungando la mano in modo che Lloyd potesse afferrarla e così
aiutarsi a salire. Il suo sguardo scivolò oltre di lui, ai soldati
che si avvicinavano sempre di più... erano troppo vicini.
«ANDATEVENE!
CORRETE!»
urlò Lloyd.
«DAMMI
LA MANO!»
rispose con rabbia Enna protendendosi verso di lui con più
decisione.
Le
loro dita si sfiorarono prima che uno sparo risuonasse nell'aria. Un
solo maledettissimo sparo estremamente preciso. Lloyd portò
immediatamente la mano al petto, dove il proiettile aveva colpito.
Indietreggiò e, inciampando nel cumulo di pietre, cadde a terra. La
pioggia prese a battere sul suo corpo disteso che Enna continuò a
guardare per qualche secondo. Le labbra di quell'uomo continuavano a
ripetere solo due parole: vai via, vai via, vai via. Ad Enna sembrò
di sentirle pronunciate dalla sua voce profonda, sincera, buona...
Frettolosamente
fece passare anche l'altra gamba al di là del muro. Solo adesso
sembrò accorgersi della mano di Ren che, per tutto quel tempo, non
aveva fatto altro che strattonarla. Non appena toccò suolo,
cominciarono a correre lungo il sentiero che la prima volta l'aveva
condotta lì. Il fango, in quel breve tratto di bosco, era molto più
fastidioso per la corsa. Più volte rischiarono di scivolare.
«I
soldati li vedi?» domandò Ren continuando a correre.
Enna
si voltò e si sforzò di guardare attraverso quella pioggia fitta e
incessante che lavava via le lacrime dal suo viso.
«Sì,
ci sono... sono lontani però... se ci muoviamo forse possiamo far
perdere loro le nostre tracce» rispose lei accelerando – per
quanto i suoi muscoli stanchi protestassero – la corsa.
Presto
furono fuori da quel sentiero e si ritrovarono a discendere la strada
principale che risaliva il piccolo monte sulla cui cima si trovava il
palazzo. Ad ogni passo le ferite di Ren gli provocavano fitte di
dolore che pervadevano le sue membra sfinite da numerosi giorni di
prigionia e maltrattamento.
«Ren,
i soldati si avvicinano sempre di più!»
Erano
arrivati ai piedi del monte ed erano quasi giunti nella periferia
della città.
«Cosa
facciamo?» domandò Enna agitata. I soldati erano ancora lontani, ma
i loro proiettili, se sparati con una buona mira, avrebbero potuto
colpirli.
«Ormai
siamo qui.... Non sanno dove abitiamo, giusto? Piove così tanto che
dubito riusciranno a vedere chiaramente i nostri spostamenti...
possiamo provare a nasconderci lì fino a quando non passeranno
oltre. Non abbiamo altra scelta Enna, ovunque andremo ci troveranno.»
Le
parve un piano folle, stupido, che non avrebbe mai funzionato. Ma lei
aveva altre idee? Valeva la pena provare.
Svoltarono
nella traversa che ospitava le loro due case e si fermarono davanti a
quella di Enna. Ren cominciò a guardarla in attesa che estraesse la
chiave per aprire la porta e fu in quel momento che la consapevolezza
che quel piano non avrebbe mai funzionato pervase entrambi. Non
avevano alcuna chiave. Erano state prelevate dai soldati nelle
prigioni.
Enna
si appoggiò al muro della sua casa, stremata. Non solo il suo corpo
chiedeva pietà, ma anche la sua mente. Erano successe troppe cose e
troppe volte si era trovata ad aggrapparsi a speranze, a vederle
sgretolarsi e poi a doversi ricredere...
Ren
le stava urlando di muoversi, di ricominciare a correre, ma era tutto
distante. Osservava il suo riflesso nella piccola pozza d'acqua che
la pioggia aveva concepito davanti alla sua casa. Si guardava. Una
donna disperata. Sola. Senza speranze. E, riflesso dietro a quella
donna, una targhetta di legno con inciso sopra un solo nome:
Anne.
Fissò
quel nome a lungo.
Anne.
Quella
pozza le restituiva tutto quel mondo, ma visto da un'altra
prospettiva. Enna
ed
Anne
erano
la stessa cosa. Una delle due, però, era il riflesso. E ad Anne non
servì nemmeno un secondo a realizzare quale fosse. Apparenza, in
realtà, non esisteva. Era un riflesso. Un'illusione. Loro ne erano
rimasti prigionieri, ma una via di fuga c'era.
«L'oceano,
Ren, è la nostra via di fuga.»
«L'oceano?»
domandò perplesso. Non c'era mai stato un oceano, solo un'enorme
distesa di terra. Questo le aveva detto. Ma adesso la regina aveva
riportato l'acqua e un oceano doveva esserci per forza.
«Ren,
devi fidarti di me... l'acqua mi ha fatto vedere questo mondo per
quello che è realmente!»
Annuì.
Videro i soldati sfrecciare davanti a loro senza nemmeno vederli.
Cominciarono a correre, di nuovo, con il fiato sospeso e aggrappato a
quell'unica ultima speranza. Ren faceva strada.
Come
aveva fatto a non capire prima? Ora ricordava. Ricordava tutto. Si
era ritrovata a correre. Si era tolta gli orecchini, si era sfilata
la giacca, aveva lasciato cadere la borsa e l’orologio, era scesa
dai tacchi e poi aveva iniziato a correre per sfuggire dalla
monotonia della sua vita, per sfuggire da quel mondo di apparenze e
Lisbet, per tutta risposta, l'aveva portata in quel mondo perfetto.
Per non permetterle di scappare via... ma aveva perso. Aveva potuto
ritardare quella fuga, non evitarla.
«Eccolo
è lì!» urlò Ren.
Enna
guardò in lontananza e vide una distesa di acqua infinita. Con le
ultime energie rimaste si affrettarono perché i soldati li avevano
trovati e avevano ricominciato a inseguirli.
«Una
barca!» esclamò Enna quando ormai erano a qualche metro dalla riva
del mare. Ren si affrettò a sciogliere il nodo della corda che
legava la barca a un robusto legno ancorato al suolo. Enna tenne
stretta la barca per impedire che la corrente la portasse al largo ed
aspettò che Ren vi salisse sopra. I soldati li avevano quasi
raggiunti, ma rimasero di sasso nel vedere quell'oceano infinito
distendersi davanti ai loro occhi. Si sentirono deboli e indifesi.
Enna ne approfittò per montare sulla barca ed entrambi afferrarono
un paio di remi. Richiedere alle loro braccia un ulteriore sforzo era
una violenza, ma era necessaria.
Lentamente
la barca cominciò a muoversi sulla superficie piatta del mare. I
soldati spararono qualche colpo, ma non li colpirono nemmeno di
striscio. Adesso che sapevano la verità e la loro mente era libera,
nulla li avrebbe fermati. A quegli uomini non rimase che osservare
quella barca allontanarsi, fino a diventare un puntino, con i loro
fucili stretti in mano.
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