lunedì 2 novembre 2015

Dall'acqua nasce l'anima - Capitolo V

V


Per quanto avessero provato a tenersi stretti, non c'era stato niente da fare. Due soldati li avevano divisi e altri due avevano cominciato a prendere a calci Ren. Enna, con gli occhi gonfi di lacrime, continuava a voltarsi, a urlare, e guardare quello spettacolo pietoso. Gli uomini la strattonavano e la obbligavano ad avanzare nonostante i suoi piedi, anziché sollevarsi passo dopo passo, strisciassero. Si fermarono davanti ad un paio di scalini. Enna era un peso morto tra le braccia dei soldati e schifata dall'idea di dipendere da quegli uomini si decise a salirli lentamente.
Dall'oscurità dei sotterranei, quell'enorme stanzone le sembrò troppo luminoso. Le mura erano bianche, così come le grande mattonelle del pavimento e i centinaia di tubi che si intrecciavano nell'aria insieme a strani fili. Addossate alle pareti c'erano cabine e cabine e la maggior parte di quelle custodiva qualcuno. Uomini, donne, bambini, tutti attaccati a quei tubi spaventosi. Enna sapeva di cosa si trattava. Ren gliene aveva parlato.
«Lasciatemi andare!» iniziò a protestare.
Aveva sempre saputo, fin da quando la regina aveva visto i suoi occhi, che il suo destino sarebbe stato quello. Ma fino a quando era con Ren, fino a quando era chiusa nella sua cella, si era potuta illudere. Adesso non poteva più.
«Lasciatemi!» ripeté agitando con forza le spalle. I due soldati la tennero più saldamente, ma Enna cominciò a dimenarsi con più energia.
«Perché? Perché? Cosa volete da me, lasciatemi!» urlò.
Gli uomini cominciarono a stringere così forte che il sangue per poco non smise di scorrere nelle vene.
«Vi sembra il modo di trattare la mia ospite? Suvvia, liberatela... dove credete possa andare?»
Enna si voltò e, alle sue spalle, incrociò lo sguardo, stranamente tranquillo, della regina. Le urla del giorno prima sembravano solo un ricordo se si guardava a quel viso perfetto, liscio, ordinato. Quelle parole erano una presa in giro bella e buona e le ricordavano che non c'era via di fuga.
I soldati, intimoriti dallo sguardo imperturbabile di Lisbet, allentarono la presa.
«Non ho detto di allentare la presa. Ho detto di lasciarla. Ha ragione, sapete, a chiedere perché. Passerà la sua intera vita in una di quelle celle e dirle il perché è il minimo che io possa fare, dico bene Enna?» domandò la regina sorridendo. Non si aspettava una risposta, ovviamente. Il fatto che Lisbet sapesse il suo nome la innervosiva. La faceva sentire nuda, come se veramente adesso potesse controllarla.
Enna scrollò le spalle non appena gli uomini tolsero le loro mani. Un cenno di Lisbet e si dileguarono con un cenno del capo.
«È buona educazione rispondere alle domande. Per caso sei muta?»
«No, non sono muta» replicò secca Enna sostenendo lo sguardo di Lisbet che non faceva altro che studiare quegli occhi blu, desiderandoli più di ogni altra cosa al mondo...
«Sai, Enna, se io ti strappassi gli occhi e li sostituissi ai miei probabilmente potrei avere Lloyd tutto per me. Potrei averlo con la certezza che nel frattempo lui non stia pensando a quel blu incantevole. Se è rimasto affascinato da te è sicuramente per i tuoi occhi, unica cosa che ti rendono minimamente interessante... ma non è questo ciò che voglio fare. L'amore è un piacevole diletto, lo ammetto, ma niente di più. Chi è schiavo dell'amore è debole. Io voglio altro da quegli occhi...»
«Il loro colore» replicò Enna.
«Forse ti avevo sottovalutata... vedo che sei perspicace. Sì, voglio quel colore. E sai perché?» domandò avvicinandosi di un passo a lei mentre un nuovo sorriso le scavalcava le labbra.
«No, non lo so» rispose Enna rimanendo immobile.
«Oh, è ovvio che non puoi saperlo. Ma te lo racconterò mia cara, perché ti sei rivelata più utile di quanto avessi mai potuto immaginare. La tua misera vita ha un senso adesso, te ne rendi conto?»
Un altro passo verso Enna.
«E non lo potrai dire a nessuno perché marcirai qui dentro per il resto della tua vita» sussurrò. Le sue labbra quasi sfioravano l'orecchio di Enna. Glielo sussurrò come fosse un segreto, una cosa che mai nessuno avrebbe saputo. E in effetti... tolti Ren, e forse Ruth, chi se ne sarebbe accorto? Nessuno.
«Ero una bambina... nient'altro che una bambina. Ricordo le pareti bianche dell'ospedale, il letto scomodo, i muscoli che facevano male. Dormivo molto e sognavo sempre la stessa cosa: una scala piazzata in mezzo al vuoto. E io correvo. Sudavo per la fatica, ma continuavo a correre e inizialmente non c'era un perché. Poi mi accorgevo che gli scalini più lontani avevano iniziato a prendere fuoco e iniziavano a rincorrermi insieme alle fiamme fino a quando non c'erano più scalini da salire: cadevo. Bruciavo. Passai alcuni giorni in ospedale fino a quando i miei genitori non decisero di portarmi fuori. Volevano portarmi al mare. Ci volle un'oretta per arrivare, non di più. Stavamo avanzando verso la spiaggia, sotto il sole, quando ci ricordammo di aver lasciato l'ombrellone in auto. Tornammo indietro e mi avvicinai al finestrino per guardare dentro, ma quello che vidi fu altro. Il mio riflesso. Vedevo il mare dietro di me, il sole, gli alberi. Ma, più di tutto, il mio viso. Metà del mio viso, questa qui» disse accarezzandosi la guancia sinistra «era bruciata. Sfregiata. Capii che non era solo un sogno il mio e improvvisamente ricordai la mia stanza da principessa in fiamme. Era successo davvero. I bambini non volevano più giocare con me, mi ignoravano e mi deridevano. Con il passare degli anni divenne insostenibile. Tornai al mare, lo stesso dove i miei genitori mi avevano portato tanti anni prima, e cercai di uccidermi. Sott'acqua cercavo dentro di me ogni briciola di coraggio per smettere di respirare e lasciare che l'acqua mi uccidesse. Ma alla fine respirai e tornai in superficie. Capisci perché l'acqua non c'è in questo mondo? Non mi ci voglio vedere riflessa. Mi ricorda quella povera piccola e patetica Lisbet ignorata e derisa da tutti che prova ad uccidersi. Ma tu... tu mi libererai da questa paura, Enna. Lo sai perché l'acqua riflette tutto? Perché in realtà non ha un colore. È trasparente e non appena vede un immagine o un colore, invidiosa, lo ruba, se ne appropria, e poi te lo restituisce con un riflesso.»
«Tu sei pazza» disse Enna indietreggiando di un passo.
«Forse... ma non mi interessa. Questo è il mio mondo, Enna. L'ho creato io. Qui nessuno mi evita come una lebbrosa, tutti mi amano e mi rispettano. Qui io sono la regina e tu non sei altro che una sguattera. Qui vigono le mie regole. Tu mi libererai da questa paura, Enna, perché i tuoi occhi daranno un colore all'acqua e allora non sarà più in grado di riflettere niente. Non potrà ricordarmi chi sono veramente e tutto sarà finalmente perfetto.»
«Ti sbagli, Lisbet. Io non ti libererò da nessuna paura e lo sai perché? Perché non è l'acqua che ti fa veramente paura... l'acqua riflette ciò che sei realmente. E se quello che vedi ti spaventa, non è dell'acqua che hai paura, ma di te stessa» disse Enna recuperando il passo che poco prima aveva fatto indietro. Non le importava che quella fosse la regina. Non aveva più niente da perdere ormai.
«Stai zitta!»
«Perché dovrei stare zitta? Cos'altro puoi farmi? Mi ucciderai? No, non credo... senza i miei occhi non potrai neanche illuderti di esserti liberata della tua paura... non potrai fingere che tutto sia perfetto... potrai anche dirlo, ma in fondo saprai che non è così, Lisbet. Nessuno ti ama realmente!» continuò Enna. Aveva capito di aver colpito il bersaglio.
«HO DETTO STAI ZITTA!» urlò la regina.
Immediatamente i due soldati appostati fuori dalla stanza entrarono e si avvicinarono, in attesa di ordini.
«Portatela nella sua cella e preparate i dispositivi» ordinò socchiudendo gli occhi alla ricerca di serenità.
I due soldati la immobilizzarono con forza e cominciarono ad allontanarla per quanto Enna si dibattesse.
«SEI UN'ILLUSA LISBET! DAI ALL'ACQUA IL COLORE DEI MIEI OCCHI ED OGNI VOLTA CHE LA VEDRAI NON FARAI ALTRO CHE PENSARE ALLE MIE PAROLE E PENSARE A QUANTO ABBIA RAGIONE!» gridò Enna nonostante Lisbet stesse accennando ad andarsene. Voleva ferirla il più possibile prima di essere rinchiusa in quella cella, voleva spezzare tutte le sue certezze.
«BASTA! BASTA! FATELA SMETTERE!»
Uno dei soldati le tappò la bocca e, con più difficoltà, continuarono a trascinarla verso la cella che l'avrebbe privata dei suoi occhi.

L'avevano lasciata chiusa lì dentro tutta la notte. Quelle ore di attesa la stavano consumando e stavano spingendo anche lei sull'orlo della pazzia. Come avrebbero preso il colore dei suoi occhi? Glieli avrebbero strappati via? L'avrebbero addormentata o sarebbe stata cosciente? Sarebbe potuta uscire ogni tanto da quella cella? A forza di stare seduta già sentiva le gambe indolenzite. Oltre il vetro della sua cella e della grande finestra in fondo alla stanza le prime gocce d'acqua avevano cominciato a cadere. Tutto era finalmente pronto. Qualche ora e quell'acqua avrebbe avuto il colore dei suoi occhi. Le sembrò addirittura di sentire il ticchettio della pioggia contro la finestra, nonostante metri e metri di distanza.
La notte si era trascinata più lentamente che mai ed Enna non era riuscita a chiudere occhio. Non si sentiva particolarmente stanca però, forse perché quelle poche ore di sonno, con la mano vicino al cuore di Ren, l'avevano ristorata come non mai.
Un tocco gelido la fece trasalire. Il suo sguardo corse rapido alle braccia da cui il brivido era partito e vide due cinghie – uscite da quella seduta – stringersi attorno agli avambracci legandola saldamente a quel posto. Qualche secondo dopo altre cinghie fecero aderire il suo petto allo schienale e immobilizzarono il suo capo. Il momento era arrivato. Sentì qualcosa strisciare sopra la sua testa e si immaginò tutti i fili meccanici, che aveva visto pendere dalla sua seduta, scendere lentamente su di lei. Il fatto di non potersi più muovere la terrorizzava più di qualsiasi altra cosa. Voleva vedere come quei macchinari si stavano preparando, come stavano tramando contro di lei. Davanti ai suoi occhi, infine, si ritrovò due piccole scatolette di metallo. Per un po' rimasero ferme, esattamente di fronte ai suoi occhi, come a fissarla. Poi, contemporaneamente, ne uscirono due sottilissimi aghi che cominciarono ad avanzare inesorabilmente verso di lei. Si aspettava un dolore impensabile e invece avvertì solamente un pizzico quando lentamente penetrarono la sua iride e presero a nutrirsi di quel blu mare. Era la fine dei giochi. La regina aveva vinto. Con quegli aghi negli occhi non poteva nemmeno sbattere le palpebre. Per i primi minuti versò qualche lacrima, poi ci fece l'abitudine. Quella sarebbe stata la sua vita da quel momento in avanti? Costretta a fissare la porta della sua cella nella speranza di vederla oltrepassata da Ren o da Ruth? Una vita piena di false illusioni? Non aveva nemmeno la forza di sperare. La porta, però, lentamente si aprì. Contro ogni previsione. Era passato così poco tempo e già aveva visite. Si aprì sempre di più fino a rivelare la persona che stava dall'altra parte: Lloyd. Stette per un minuto buono fermo sulla soglia, facendo oscillare il suo sguardo tra quel macchinario diabolico e gli occhi – ormai senza colore – di Enna. La pioggia, al di là di tutti quei vetri, aveva cominciato a ricoprire le strade con il suo nuovo colore blu intenso. Non avrebbe più riflesso niente, ma era sempre acqua.
«Cosa ci fai qui?» domandò Enna impassibile. Non le interessava che Lloyd fosse lì e in realtà non sapeva nemmeno perché gli avesse posto quella domanda. In parte era colpa sua se lei si trovava legata a quella postazione. Aveva capito che ormai non c'era nessuna speranza a cui aggrapparsi e qualsiasi cosa Lloyd avesse detto non le sarebbe servito a nulla. Da in ora avanti gli avvenimenti le sarebbero scivolati semplicemente addosso. Il macchinario la costringeva a tenere gli occhi dritti davanti a sé, fissi in quelli di Lloyd. Le sarebbe piaciuto rivolgerli altrove, forse perché non tollerava l'idea che quell'uomo che era stato stregato dai suoi bellissimi occhi blu mare ora si trovasse davanti a uno sguardo incolore. Spento.
«Una notte nella camera da letto può offrire infinite possibilità...» rispose spostando lo sguardo, come se se ne vergognasse. L'uomo che, anche solo per qualche ora, aveva conosciuto Enna non le aveva dato l'impressione di poter fare una cosa del genere. Eppure lo aveva fatto e solo per entrare in quella cella. Solo per vedere lei.
«Non dovevi disturbarti. Come vedi dei miei occhi non è rimasto più niente.»
«Pensi che io sia qui per i tuoi occhi? E poi... ti sbagli. Si riesce ancora a vedere in profondità... si vede cosa pensi, si sente cosa provi. Mi odi, vero?» domandò riportando lo sguardo su di lei.
«Perché non dovrei?»
«Devi credermi, Enna, non le ho detto nulla di te. Sapevo che se avesse visto i tuoi occhi ti avrebbe fatto questo. Non lo avrei mai permesso.»
Enna si prese qualche secondo per studiare quell'espressione così sincera, quei capelli stranamente disordinati e quello sguardo così supplichevole.
«Eppure eccomi qui. Voglio aiutarti, Enna. Te ne vuoi andare da questo mondo, vero?»
Enna rimase spiazzata da quella domanda.
«Perché me lo chiedi?»
«Te l'ho detto... i tuoi occhi sono quelli di prima e raccontano molto di te. L'ho capito subito, dal modo in cui hai volto altrove lo sguardo quando sono sceso dalla carrozza, dal modo in cui ti mangiavi le unghie su quel divanetto, dal modo in cui parlavi, ti muovevi e pensavi sempre ad altro anche mentre parlavi con me, come se la tua mente, ogni secondo, stesse valutando le possibili vie di fuga» disse Lloyd accennando un sorriso.
«Io... sì, ci ho pensato tante volte, ma ormai che senso ha parlarne? Non me ne andrò mai di qui.»
«Forse... ma farò quanto mi è concesso per aiutarti» rispose Lloyd.
Si alzò in piedi e, da sotto la cintura, afferrò l'elsa di un pugnale. Guardò oltre il vetro della cella per assicurarsi che non ci fosse nessuno, come aveva espressamente richiesto.
«Lloyd, fermati. Cosa diamine pensi di fare? Ti prenderanno!» sussurrò frettolosamente Enna.
«Non se scappo con te» rispose con un altro sorriso.
La lama, con un colpo netto e deciso, tranciò tutti i fili che pendevano dal tubo principale. Immediatamente Enna sentì la presa delle cinghie farsi debole sulle sue braccia e i due spaventosi aghi che erano penetrati nel suo occhio si ritrassero, come spaventati. L'oceano riempì nuovamente i suoi occhi, circondando con tenerezza l'isola che era la sua pupilla. Era libera.
«E ora?» domandò Enna terrorizzata. Fino a poco prima era stata sprezzante del pericolo perché non aveva possibilità, non aveva niente da perdere. Ma ora poteva essere libera. Poteva liberare Ren.
«Scappiamo» rispose Lloyd come fosse la cosa più facile del mondo.
Uscirono velocemente dalla cella. Enna guardò con indecisione tutte le altre piccole gabbie. Quanto le sarebbe piaciuto entrare e liberare, ad uno ad uno, tutte quelle povere persone. A cercare bene avrebbe trovato anche quella povera bambina, Alison, che aveva visto portare via. Ma come avrebbero fatto a scappare tutti insieme? Non ci sarebbe stata libertà né per lei, né per tutti loro.
Sapevano che, fuori dalla stanza, sicuramente dei soldati stavano facendo la guardia. Lloyd pose l'indice sulle sue labbra facendo cenno ad Enna di non fare il minimo rumore e di fermarsi lì dov'era. Con noncuranza oltrepassò la soglia facendo un cenno del capo ai due soldati che ricambiarono. Non appena i loro capi si chinarono, Lloyd, sfruttando l'effetto sorpresa, sferrò due pugni che fecero rovinare al suolo i due uomini. Poi, prima che potessero riprendersi, iniettò nella loro carne qualcosa che li mise a tappeto completamente. Mentre Enna osservava la siringa spingere nel collo di uno dei soldati, notò che dalla sua cinta pendeva un mazzo di chiavi. Le prigioni. Ren.
«Non posso andarmene di qui senza una persona. È nelle segrete, ci vorrà solo un minuto con queste» lo implorò Enna sfilando il mazzo al soldato.
Lloyd si guardò intorno titubante.
«Dai, facciamo in fretta! È questione di minuti che si accorgano di noi!»
Enna ripercorse a ritroso tutta la strada che proprio quei due soldati le avevano fatto fare strisciando i piedi per terra. Discese i pochi scalini e, raggiunta la cella di Ren, cominciò a infilare ogni chiave nella serratura.
«Che cavolo stai facendo?» sussultò Ren nel vederla lì. La sua maglia – strappata in più punti – lasciava intravedere i tagli ancora freschi sulla schiena.
«Ce ne andiamo... non era il tuo sogno?» disse Enna agitata provando un altro paio di chiavi.
Ren, seppure a fatica, si alzò e si aggrappò alle sbarre. Riservò una breve occhiata interrogativa a Lloyd, ma quello non era decisamente il momento per porre delle domande. La serratura, finalmente, si sbloccò e anche Ren fu libero.
Enna si pose davanti ai due. Era quella che conosceva il castello meglio di tutti.
«E ora da dove usciamo?» domandò lei risalendo gli scalini.
«Speravo me lo dicessi tu!» replicò Lloyd allarmato. Il suo piano si fermava all'obiettivo “Liberare Enna dalla sua cella”. Non aveva progettato anche il seguito.
«Il buco nel muro!» esclamò Ren.
Enna annuì convinta e con passi rapidi e decisi cominciò a farsi strada in quei livelli sotterranei. Quando vi era stata condotta la sua mente era offuscata da mille pensieri, ma concentrandosi riuscì a ricostruire tutta la strada a ritroso fino a quando non emersero nuovamente in uno dei corridoi del castello. A loro favore si schierava il fatto che nessuno sapeva che Enna fosse stata prigioniera. Lisbet aveva tentato di nasconderlo, per quanto possibile, per mantenere il titolo di regina buona e magnanima. Enna cominciò a muoversi a passo normale, con i due uomini appresso. Di tanto in tanto si guardava attorno e quando incontrava lo sguardo stranito delle sue compagne accelerava. Raggiunse la porta che dava all'esterno e furono fuori.
«Il giardino è sempre perlustrato dai soldati, specialmente da quando sono venuti a conoscenza di quella breccia nel muro, quindi... pronti a correre?» sussurrò Enna voltandosi.
Lloyd annuì con convinzione, mentre Ren rimase impassibile. Le ferite ancora gli provocavano dolore, ma quella era una questione di vita o di morte.
«Ora!»
Tutti e tre presero a correre verso le mura. Erano a metà tragitto quando, alle loro spalle, un soldato cominciò ad urlare. Impegnati nella corsa com'erano non ebbero neanche modo di realizzare cosa l'uomo avesse detto, ma voltandosi, videro che avevano un paio di soldati alle calcagna. Il loro vantaggio, tuttavia, era notevole. La pioggia – che continuava a cadere, incessante – aveva bagnato il suolo e correre si faceva sempre più faticoso nelle zone fangose. Giunta al cumulo di pietre Enna si fermò ed aspettò – per una manciata di secondi - che Ren la raggiungesse.
«Tu, sei ferito! Vai per primo» ordinò Enna.
Ren avrebbe voluto controbattere, ma erano secondi a separarli da quei soldati. Senza obiettare si issò sul cumulo di pietre e, aiutato dalla spinta degli altri due, fu al di là del muro.
«Ora tu!» disse Lloyd incitando Enna a salire.
Senza farselo ripetere Enna salì lungo l'ammasso di pietre rese scivolose dall'acqua. Un paio di volte rischiò di cadere, ma infine riuscì a mettere una gamba al di là del muro. Si fermò lì a metà, allungando la mano in modo che Lloyd potesse afferrarla e così aiutarsi a salire. Il suo sguardo scivolò oltre di lui, ai soldati che si avvicinavano sempre di più... erano troppo vicini.
«ANDATEVENE! CORRETE!» urlò Lloyd.
«DAMMI LA MANO!» rispose con rabbia Enna protendendosi verso di lui con più decisione.
Le loro dita si sfiorarono prima che uno sparo risuonasse nell'aria. Un solo maledettissimo sparo estremamente preciso. Lloyd portò immediatamente la mano al petto, dove il proiettile aveva colpito. Indietreggiò e, inciampando nel cumulo di pietre, cadde a terra. La pioggia prese a battere sul suo corpo disteso che Enna continuò a guardare per qualche secondo. Le labbra di quell'uomo continuavano a ripetere solo due parole: vai via, vai via, vai via. Ad Enna sembrò di sentirle pronunciate dalla sua voce profonda, sincera, buona...
Frettolosamente fece passare anche l'altra gamba al di là del muro. Solo adesso sembrò accorgersi della mano di Ren che, per tutto quel tempo, non aveva fatto altro che strattonarla. Non appena toccò suolo, cominciarono a correre lungo il sentiero che la prima volta l'aveva condotta lì. Il fango, in quel breve tratto di bosco, era molto più fastidioso per la corsa. Più volte rischiarono di scivolare.
«I soldati li vedi?» domandò Ren continuando a correre.
Enna si voltò e si sforzò di guardare attraverso quella pioggia fitta e incessante che lavava via le lacrime dal suo viso.
«Sì, ci sono... sono lontani però... se ci muoviamo forse possiamo far perdere loro le nostre tracce» rispose lei accelerando – per quanto i suoi muscoli stanchi protestassero – la corsa.
Presto furono fuori da quel sentiero e si ritrovarono a discendere la strada principale che risaliva il piccolo monte sulla cui cima si trovava il palazzo. Ad ogni passo le ferite di Ren gli provocavano fitte di dolore che pervadevano le sue membra sfinite da numerosi giorni di prigionia e maltrattamento.
«Ren, i soldati si avvicinano sempre di più!»
Erano arrivati ai piedi del monte ed erano quasi giunti nella periferia della città.
«Cosa facciamo?» domandò Enna agitata. I soldati erano ancora lontani, ma i loro proiettili, se sparati con una buona mira, avrebbero potuto colpirli.
«Ormai siamo qui.... Non sanno dove abitiamo, giusto? Piove così tanto che dubito riusciranno a vedere chiaramente i nostri spostamenti... possiamo provare a nasconderci lì fino a quando non passeranno oltre. Non abbiamo altra scelta Enna, ovunque andremo ci troveranno.»
Le parve un piano folle, stupido, che non avrebbe mai funzionato. Ma lei aveva altre idee? Valeva la pena provare.
Svoltarono nella traversa che ospitava le loro due case e si fermarono davanti a quella di Enna. Ren cominciò a guardarla in attesa che estraesse la chiave per aprire la porta e fu in quel momento che la consapevolezza che quel piano non avrebbe mai funzionato pervase entrambi. Non avevano alcuna chiave. Erano state prelevate dai soldati nelle prigioni.
Enna si appoggiò al muro della sua casa, stremata. Non solo il suo corpo chiedeva pietà, ma anche la sua mente. Erano successe troppe cose e troppe volte si era trovata ad aggrapparsi a speranze, a vederle sgretolarsi e poi a doversi ricredere...
Ren le stava urlando di muoversi, di ricominciare a correre, ma era tutto distante. Osservava il suo riflesso nella piccola pozza d'acqua che la pioggia aveva concepito davanti alla sua casa. Si guardava. Una donna disperata. Sola. Senza speranze. E, riflesso dietro a quella donna, una targhetta di legno con inciso sopra un solo nome: Anne.
Fissò quel nome a lungo.
Anne.
Quella pozza le restituiva tutto quel mondo, ma visto da un'altra prospettiva. Enna ed Anne erano la stessa cosa. Una delle due, però, era il riflesso. E ad Anne non servì nemmeno un secondo a realizzare quale fosse. Apparenza, in realtà, non esisteva. Era un riflesso. Un'illusione. Loro ne erano rimasti prigionieri, ma una via di fuga c'era.
«L'oceano, Ren, è la nostra via di fuga.»
«L'oceano?» domandò perplesso. Non c'era mai stato un oceano, solo un'enorme distesa di terra. Questo le aveva detto. Ma adesso la regina aveva riportato l'acqua e un oceano doveva esserci per forza.
«Ren, devi fidarti di me... l'acqua mi ha fatto vedere questo mondo per quello che è realmente!»
Annuì. Videro i soldati sfrecciare davanti a loro senza nemmeno vederli. Cominciarono a correre, di nuovo, con il fiato sospeso e aggrappato a quell'unica ultima speranza. Ren faceva strada.
Come aveva fatto a non capire prima? Ora ricordava. Ricordava tutto. Si era ritrovata a correre. Si era tolta gli orecchini, si era sfilata la giacca, aveva lasciato cadere la borsa e l’orologio, era scesa dai tacchi e poi aveva iniziato a correre per sfuggire dalla monotonia della sua vita, per sfuggire da quel mondo di apparenze e Lisbet, per tutta risposta, l'aveva portata in quel mondo perfetto. Per non permetterle di scappare via... ma aveva perso. Aveva potuto ritardare quella fuga, non evitarla.
«Eccolo è lì!» urlò Ren.
Enna guardò in lontananza e vide una distesa di acqua infinita. Con le ultime energie rimaste si affrettarono perché i soldati li avevano trovati e avevano ricominciato a inseguirli.
«Una barca!» esclamò Enna quando ormai erano a qualche metro dalla riva del mare. Ren si affrettò a sciogliere il nodo della corda che legava la barca a un robusto legno ancorato al suolo. Enna tenne stretta la barca per impedire che la corrente la portasse al largo ed aspettò che Ren vi salisse sopra. I soldati li avevano quasi raggiunti, ma rimasero di sasso nel vedere quell'oceano infinito distendersi davanti ai loro occhi. Si sentirono deboli e indifesi. Enna ne approfittò per montare sulla barca ed entrambi afferrarono un paio di remi. Richiedere alle loro braccia un ulteriore sforzo era una violenza, ma era necessaria.
Lentamente la barca cominciò a muoversi sulla superficie piatta del mare. I soldati spararono qualche colpo, ma non li colpirono nemmeno di striscio. Adesso che sapevano la verità e la loro mente era libera, nulla li avrebbe fermati. A quegli uomini non rimase che osservare quella barca allontanarsi, fino a diventare un puntino, con i loro fucili stretti in mano.


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