«Enna!
Enna, sei tu?»
Rannicchiata
al buio della sua cella, quella voce le giunse lontana, come se
venisse da un altro mondo, da un sogno. Si stringeva le gambe contro
il petto e continuava a tremare e guardare dritto avanti a sé. Era
passata una mezz'ora così: a tremare e a guardare il nulla.
«Ti
prego Enna, rispondimi. Ho bisogno di sentirmi dire che sei tu.»
Era
la centesima volta che quella voce la implorava e non otteneva nulla.
Ma quel ti
prego
fece tremare qualcosa dentro di lei, qualcosa vicino al cuore, e la
risvegliò da quello stato di shock che l'aveva paralizzata.
«Si,
Ren, sono io» rispose continuando a guardare dritto davanti a sé.
Per
un minuto in quelle due celle non si sentì altro se non il canto dei
grilli che si insinuava da una piccola fenditura nel muro. Poi Enna
sentì Ren singhiozzare alle sue spalle e quando si girò lo vide
piangere. Piangeva, rannicchiato proprio come lei. Le celle erano
attaccate e separate solo da sbarre di ferro troppo vicine per
poterci passare attraverso, ma abbastanza lontane da permettere agli
sguardi di toccarsi. Enna si avvicinò e fece scivolare la sua mano
oltre quelle sbarre. Sfiorò il ginocchio di Ren – più in là non
arrivava – e poi vi si fermò sopra.
«Perché
piangi?»
Ecco,
quelle lacrime l'avevano scossa profondamente.
«Tu
non dovresti essere qui e nemmeno io. Sono stato uno stupido. Mi
dispiace,
Enna, mi dispiace non sai quanto.»
Quel
sussurro si insinuò sotto la sua pelle, come quello della regina. Ma
in un modo completamente diverso. La voce di Ren era come una
coperta, la scaldava e la faceva sentire al sicuro, nonostante tutto.
«Non
è colpa tua... io me l'ero cavata. Mi ha aiutato Ruth e mi ha detto
tante cose di te... l'hai sempre fatta franca. Il disastro sono stata
io, sicuramente mi avranno sentito far rumore nel bosco» rispose
cercando il suo sguardo.
Ren
strisciò il più possibile avanti e adesso custodiva la mano di Enna
nella sua. Non sapeva bene cosa gli stava succedendo. Erano stati
insieme pochissimo, eppure... forse si era innamorato di lei nelle
milioni di volte che l'aveva pensata e ricordata? Forse perché tutti
e due non appartenevano veramente a quel posto e lui lo sapeva bene.
«Enna,
ce ne andremo di qui, vedrai.»
«No,
Ren, non è vero.»
Nel
silenzio che seguì i loro respiri erano la cosa più reale e
materiale del mondo. Erano una promessa. Erano un Io
sono qui. Io ci sono.
«In
tutto questo tempo ho provato così tante volte a venire quaggiù
Ren, non sai quanto.»
«Non
avresti dovuto» rispose Ren cominciando ad accarezzare quella mano
che fino a pochi secondi prima si era limitato a proteggere.
«Sì,
Ruth mi stava aiutando... ma non sono finita qui perché mi hanno
scoperto. Sono qui perché...»
Le
urla della regina e il suo sorriso folle la fecero esitare.
«Perché?»
la incoraggiò lui.
«Perché
l'uomo di cui Lisbet è segretamente innamorata mi ha chiesto di
ballare. Poi ha visto i miei occhi e mi ha portata qui...»
Silenzio.
«Ren,
ho paura...» confessò cercando di avvicinarsi ancora di più alle
sbarre, ma non poteva. Poggiò il palmo dell'altra mano sulla
ringhiera che quelle sbarre formavano. Ren fece lo stesso e quelle
mani complementari, per quanto non riuscissero a sfiorarsi, si
stavano sorreggendo l'un l'altra.
«Ce
ne andremo di qui, Enna, te lo prometto» tornò a ripetere lui.
No,
non è vero pensò
Enna, ma questa volta lo tenne per sé.
Aveva
sentito parlare tante volte dell'amore. Lo aveva letto, visto,
ascoltato. E ovunque – proprio ovunque – si parlava di un cuore
che batteva all'impazzata, come un martello, pronto ad esplodere. Il
suo cuore, al contrario, era rimasto sospeso in mezzo al petto e
sembrava non muoversi più. Era come fosse una piccola barca in balia
di onde misteriose. Non erano come quelle del mare, perché si
muovevano molto più lentamente, turbate da nessun vento, e cullavano
quel cuore come una mamma fa con il suo bambino. Non erano
fredde, ma calde, calde
di un calore debole, come quello di un fuoco che timidamente prova ad
ardere la legna e a rischiarare il buio con la sua pallida luce. Ma
più di tutto erano dolci e il suo cuore non poteva far altro che
lasciarsi guidare, sprofondare chissà in quali luoghi dentro di sé
e poi emergere, preda di quel sentimento che non aveva mai esplorato.
Ecco cos'avevano in comune quelle onde con il mare: che non si
smetteva mai di scoprirle e tanto più si andava in profondità,
tanto più c'era da vedere, da sentire, da respirare. Tanto più si
andava in profondità, tanto più il mondo era distante e incapace di
ferire, attaccare, esistere. Erano onde in cui ci si sentiva
protetti, al sicuro. E fu tra quelle onde che Enna chiuse gli occhi e
si addormentò.
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