lunedì 2 novembre 2015

Dall'acqua nasce l'anima - Capitolo I

I

Dagli occhi di Lisbet

Su quel letto aveva spesso trovato rifugio. Quando il mondo le sembrava troppo difficile da affrontare, troppo veloce da inseguire, troppo complicato da capire, lei semplicemente si lasciava cadere su quel morbido materasso ed insieme al suo corpo sembravano sprofondare anche i problemi. Tutto finalmente si fermava e non c’era niente che potesse raggiungerla lì, nella sua camera. Adesso, quello stesso letto, sembrava aprirsi come una voragine sotto di lei ed in quel precipitare non c’era niente a cui potersi aggrappare per tentare di salvarsi. Niente.
Lisbet accarezzò la sua guancia con estrema lentezza e non appena con le dita l’ebbe percorsa tutta, l’accarezzò di nuovo e di nuovo ancora. Come aveva fatto a non accorgersene fino ad adesso? La verità era stata lì, sul suo corpo, per tutto questo tempo. Sul suo corpo, ma non sotto i suoi occhi.
Non tornerò mai più come prima.
Questa consapevolezza la stava dilaniando dall’interno. Come pretendeva che il mondo la accettasse così come era, se proprio lei, guardando il suo riflesso, ne era rimasta inorridita?
Si rigirò sul letto e affondò la testa sul cuscino che molte volte si era impregnato delle sue lacrime. Cominciò a piangere, ma non fu come le altre volte. Non si sentì più libera, più leggera, più spensierata. Si sentì disperata esattamente come poco prima.
«Lisbet?»
Suo padre aveva bussato un paio di volte alla porta, ma non se ne era nemmeno accorta. Lisbet fece finta di non sentire e cercò di frenare le sue lacrime nel tentativo di non fare rumore.
Vattene, papà, vattene.
Sentiva la sua presenza dietro quella robusta porta di legno chiusa a chiave, sentiva il suo respiro pesante come se potesse oltrepassare quei muri e sfiorare il suo collo.
«Lisbet?» ripeté un po’ più forte.
Tutte le lacrime frenate si erano accalcate in un nodo d’ira nel suo stomaco e improvvisamente afferrò l'abate-jour e la scaraventò con tutta la forza che aveva contro la porta. La lampadina che al suo interno stava emanando una luce stanca si ruppe in tantissimi pezzi che si riversarono al suolo. La stanza piombò nel buio completamente mentre nel silenzio si poteva udire il rumore di passi che si allontanavano.
Se io non posso essere come tutti gli altri, allora saranno gli altri ad essere come me.
Scostò leggermente la tenda e per un po’ stette immobile a scrutare il mondo al di là della sua finestra che le permetteva di vederne solo uno spiraglio. Se lei non poteva tornare come prima, neanche il mondo sarebbe stato più lo stesso.

* * *

Dagli occhi di Enna

Molte volte aveva pensato a come sarebbe stato il giorno in cui, finalmente, avrebbe dato una svolta alla sua vita. Lo aveva immaginato in miliardi di modi diversi e stravaganti, invece sarebbe stata una cosa semplice, come non l’aveva mai pensata.
Enna sfilò gli orecchini e li gettò a terra.
Era una donna sulla trentina. Era elegante e spesso, per essere sempre in ordine, rubava un’ora al suo sonno solamente per sistemare i suoi lunghi capelli castani: li pettinava con una spazzola anche quando erano perfettamente al loro posto. Sembrava quasi un gesto meccanico. Poi, ogni volta, dopo essersi presa cura di loro per tutto quel tempo faceva una cosa incomprensibile: li raccoglieva in uno chignon e li intrappolava con un fermaglio. Chi, vedendo l’intreccio di capelli sul suo capo, se la sarebbe mai potuta immaginare seduta davanti allo specchio mentre li pettinava e guardava assorta il suo riflesso? Chissà a cosa pensava poi veramente mentre la spazzola andava su e giù. Forse quello strano rituale era solo una scusa per fermarsi a pensare.
Enna strofinò una mano sulle sue labbra per pulirle dal rossetto.
Pensava a quel lontano giorno d’agosto dove, sotto le prime gocce di quella che si sarebbe rivelata una tempesta con i fiocchi, con due guance rosse come mele aveva regalato il suo primo bacio ad un ragazzino più piccolo di lei. Pensava a quel giorno, un po’ meno lontano, in cui, mentre un uomo le sussurrava all’orecchio “ti amo”, lei per la prima volta aveva fatto l’amore. O forse, più che alle cose che aveva fatto, pensava a quelle che non aveva ancora fatto o che avrebbe voluto fare: a quell’amico un po’ sfigato, così lo chiamavano, delle superiori con cui avrebbe sempre voluto parlare, ma mai l’aveva fatto per paura di essere etichettata come lui; a quegli allenamenti di calcio che aveva sempre dovuto osservare da dietro i cancelli con la scusa di avere una cotta per il capitano della squadra.
Enna cominciò a camminare e si sfilò la giacca.
Forse pettinava i suoi capelli e li ordinava perché era proprio quello che faceva con i suoi pensieri. Quando raccoglieva i capelli, allora raccoglieva anche i suoi pensieri e li cacciava via, in una parte profonda di sé, lontana. Enna sapeva che ovunque dentro di lei non era lontano abbastanza e che non c’era posto sicuro in cui chiudere quei pensieri, ed infatti la sera scioglieva i capelli e i pensieri tornavano a galla. Di giorno però doveva essere perfetta. Doveva essere l’Enna che tutti conoscevano, che tutti volevano vedere, che tutti dicevano di amare. Prima e dopo invece poteva provare ad essere Enna e basta.
Enna lasciò cadere la borsa sulla strada.
Ci provava, ma non era così facile. Era come recitare tre quarti della propria vita: ad un certo punto il personaggio che stai interpretando non è poi così diverso da quello che sei. Si confondono.
Enna slacciò l’orologio costoso mentre continuava a camminare.
Lavorava in ufficio anche se non le era mai piaciuto farlo. Era un lavoro onesto e le permetteva di mantenersi da sola e soddisfare qualche sfizio per lo meno. Avrebbe sempre voluto essere una stilista, ma questa era un’altra storia. Enna aveva frequentato il liceo perché i suoi genitori erano persone prestigiose e di conseguenze lei doveva essere una brava ragazza. Una brava ragazza non poteva non andare al liceo e così non aveva mai studiato moda. Dato che lavorava in ufficio ogni mattina indossava una gonna scura e una camicia chiara. Mai il contrario.
Enna si fermò un attimo e si sfilò i tacchi per poi lanciarli alle sue spalle.
Improvvisamente, però, si rese conto che la sua vita le andava un po’ stretta. Era come uno di quegli abiti che vestivano meravigliosamente sul manichino e la cui cerniera, quando si decideva di provarlo, faceva una fatica impensabile a salire. Era un abito bellissimo, sì, ma non addosso a te. Non se dovevi indossarlo una sera intera. Enna invece quella vita l’aveva indossata per anni: per questo si era tolta gli orecchini, si era sfilata la giacca, aveva lasciato cadere la borsa e l’orologio, era scesa dai tacchi e poi aveva iniziato a correre. Per quel giorno voleva essere diversa. Detto così è strano perché diversa, in realtà, era stata tutti gli altri giorni della sua vita, meno che quello. Quel giorno sarebbe stata sé stessa. Iniziò a correre e correre, ma la strada che ogni giorno la portava in ufficio sembrava più lunga del solito. Correva, ma quella strada sembrava così dannatamente diversa da quella di tutti i giorni. C’era sempre stata una pasticceria in cui a volte si fermava e poi un passaggio pedonale, adesso invece era solo strada che si srotolava in avanti. Strada e basta, come se l’unica cosa che contasse fosse percorrerla e non ci fosse tempo per fermarsi a fare altro. Tutto era cambiato improvvisamente.

Mentre correva era stata avvolta da un sottile strato di nebbia e si era sentita completamente sperduta. Era sicura però di dover continuare lungo quella strada.
Era passato tanto di quel tempo che non avrebbe saputo dire se fosse passata un’ora o più, quando finalmente la foschia cominciò a disperdersi e qualcosa cominciò ad emergere in lontananza. Un cancello alto e maestoso si ergeva davanti a una città che non aveva mai visto. Tutto quel mondo, in realtà, le sembrava di non averlo mai visto. Ora che finalmente riusciva a vedere, si accorse che la strada sotto ai suoi piedi era in ciottoli bianchissimi ed era tanto pulita che Enna avrebbe giurato non ci fosse mai passata neanche una macchina. A costeggiarla c’erano prati dall’erba verdissima intervallati da maestosi alberi. All’ingresso del cancello si trovavano due uomini – probabilmente soldati – che stonavano con tutto ciò che li circondava. Quella strada, quei prati, quel cancello sembravano far parte della sceneggiatura di una dolce fiaba, ma quegli uomini sorreggevano una lunga lancia minacciosa ed erano rinchiusi in un’armatura di ferro. Enna si avvicinò a loro timidamente: non sapeva dov’era arrivata e non sarebbe stata capace di tornare indietro, ma non era spaventata. Era stupita per lo più.
«Nome, prego» esordì l’uomo a destra rivolgendole uno sguardo che fece capire ad Enna che doveva fermarsi.
«Enna» rispose pacata soffermando il suo sguardo sull’uomo che le aveva rivolto la parola.
L’altro soldato abbassò lo sguardo su un grosso libro poggiato su un alto leggio in legno. Scorse un paio di nomi prima di annuire con il capo.
«Sì, c’è il suo nome. Sarebbe dovuta arrivare tra sette minuti a dire la verità. La sua vita doveva proprio far schifo se si è messa a correre così veloce per sfuggirle, eh?» si rivolse a lei l’uomo. La sua voce era tanto simile a quella dell’altro soldato che, se Enna fosse stata di spalle, sicuramente non sarebbe riuscita a riconoscere chi dei due avesse parlato.
«Io... no... avevo solo paura, non riconoscevo la strada».
«Cercano tutti di negarlo, ma non si preoccupi. Qui finalmente avrà una vita dignitosa. La vita che merita» rispose pacatamente l’uomo.
«La sua nuova abitazione si trova nella periferia della città, ai piedi del monte. C’è il suo nome sopra, per cui la troverà di sicuro» concluse poi il soldato che le aveva inizialmente rivolto la parola.
«Dev’esserci un fraintendimento. Io non volevo recarmi qui, stavo andando a…»
Avete mai provato la sensazione di aver camminato per così tanto tempo da esservi dimenticati sia da dove eravate partiti, sia dove avevate intenzione di arrivare? Probabilmente no. Se ci muoviamo è per arrivare da qualche parte: c’è chi deve presentarsi al suo primo appuntamento, chi deve scattare una fotografia, chi deve correre per non perdere l’aereo che lo porterà a vivere il viaggio che ha sempre desiderato. Il giovinetto, dopo essersi guardato a lungo allo specchio per assicurarsi di essere perfetto, sicuramente non si dimenticherà la fanciulla che lo aspetta al parco; il fotografo, dopo aver cercato la luce e la posizione adatta, non si dimenticherà cosa voleva immortalare nella foto e il povero operaio, dopo una vita di risparmi, non si chiederà, una volta sull’aereo, dove sta andando.
Invece Enna quella sensazione la stava provando.
«Signorina, nessun fraintendimento. Se non vuole passare la notte fuori dai cancelli, la invito ad entrare in città e cercare la sua abitazione. Non appena l’avrà trovata le consiglio di recarsi nella piazza principale: è meglio iniziare a conoscere subito le nostre leggi per evitare spiacevoli inconvenienti. Le prigioni della regina non sono il più ameno dei posti».
I due uomini afferrarono le ante del cancello per le sbarre e le aprirono invitandola ad entrare. Enna inspirò profondamente e ringraziò i due uomini prima di varcare la soglia del cancello e sentirlo chiudersi alle sue spalle.
In lontananza riusciva a scorgere il monte che i due soldati avevano nominato poco prima e, in cima, le pareva di vedere un castello. La strada davanti a sé invece era dritta e di tanto in tanto si diramava in altre piccole stradine. Neanche lei sapeva perché si era arresa tanto facilmente e aveva accettato di rimanere in quel posto. Stava percorrendo la strada principale quando un odore delizioso stuzzicò il suo olfatto: si fece guidare e imboccò un sentiero sulla sua destra. Proveniva da un banchetto di dolci sul ciglio della strada. Enna si avvicinò lentamente mentre sentiva il suo stomaco brontolare per la fame. I suoi occhi cominciarono a vagare in mezzo a tantissimi dolci diversi: biscotti dai più svariati gusti, croissant, pasticcini.
«Nuova, vero?» disse un uomo alle sue spalle.
Enna si voltò e la prima cosa che incrociò furono un paio di occhi verdissimi, come mai aveva visto nella sua vita, che la stregarono. Poi, quando riuscì a liberarsi dall’incanto, vide una pelle liscia e leggermente abbronzata, capelli biondo cenere non troppo lunghi ed un sorriso dai denti bianchissimi.
«Sono qui da cinque minuti. Come ha fatto a capirlo?» domandò.
«Chiunque avrebbe già preso almeno un biscotto da questo banchetto.»
«Ma non ho soldi con me» replicò Enna.
«Non servono soldi qui. Puoi prendere tutto quello che vuoi» rispose sorridendole ancora una volta mentre si avvicinava di un passo ai dolci. Ne afferrò due identici e gliene porse uno. Enna lo strinse tra le mani e lo guardò un attimo prima di assaggiarlo. Non avrebbe saputo dire cos’era, ma sicuramente era ricoperto dalla cioccolata più buona che avesse mai mangiato nella sua vita.
«Se è appena arrivata forse è meglio che qualcuno la aiuti. Io il primo giorno l’ho passato a vagare senza meta e ho dormito su una panchina. Vorrei evitarglielo, se possibile.»
«Accetto volentieri signor…»
«Ren. Ma non mi chiami signore, la prego. Mi fa sentire vecchio e credo di avere più o meno la sua età» disse ridendo per qualche secondo.
«Piuttosto che ne dice di darci del tu?» concluse.
«Certo. Allora, Ren, i soldati all’ingresso mi hanno detto che la mia abitazione si trova ai piedi del monte, in periferia.»
«Ti accompagno volentieri, dato che vivo da quelle parti, se mi riveli il tuo nome.»
«Enna.»
«Bene, Enna… prima di trovare casa tua, che sicuramente è una cosa importante, credo di doverti dire un paio di cose importanti su questo posto» cominciò prima di incamminarsi nuovamente verso la strada principale insieme a lei.
«La prima è che questo mondo si chiama Apparenza. In realtà non è il suo vero nome, ma io lo chiamo così. La seconda cosa è che è impossibile scappare da qui. Nessuno ci è mai riuscito fino ad oggi.»
«Questo posto sembra un sogno. Sono arrivata ed ho già una casa, mentre nel mio mondo comprarne una è una missione. Perché mai qualcuno vorrebbe andarsene da qui?» disse abbozzando un sorriso scherzoso.
«Lo capirai presto Enna, lo capirai presto» disse rispondendo al sorriso.
«Sarò io il primo ad andarmene di qui. Nessuno ci è mai riuscito, ma io ce la farò» aggiunse poi.
«Non stai bene qui?» domandò Enna mentre tornavano sulla strada principale.
«Non si sta troppo male, lo ammetto.»
«Se non stai male, allora vuol dire che stai bene» replicò Enna sicura di sé.
«Dici? La felicità per te è semplicemente assenza di dolore?» domandò Ren incrociando gli occhi di lei. Per la prima volta si rese conto che erano di un blu così intenso che si aveva la sensazione di precipitarvi dentro.
«Einstein diceva che l’oscurità non è altro che assenza di luce e che il freddo non è altro che assenza di calore. La felicità, allora, è assenza di dolore» rispose ricambiando lo sguardo.
Lo sguardo di Ren si fece pensieroso ed assente mentre la sua mente macinava idee e idee e cercava una risposta convincente a quell'affermazione.
«Non penso che sia così... credo che sia un modo di vedere la vita un po' cinico e triste. Ma se metti in mezzo Einstein chi sono io per ribattere? Per questa volta mi hai fregato» ammise abbozzando un sorriso.
Anche Enna sorrise. Non lo fece solo perché era riuscita a far prevalere in un certo senso il suo pensiero, ma perché Ren forse non se ne sarebbe andato. Quando aveva visto i suoi occhi aveva pensato che fossero la cosa più bella del mondo e se lui non sapeva rispondere a quella semplice affermazione, forse, non se ne sarebbe andato.
«Comunque, ti stavo dicendo... In cima al monte, come avrai notato, si trova il castello della regina Lisbet. È lei che regna qui e nessuno osa disobbedirle. Quelli che hai visto all’entrata sono i suoi soldati. Ha un piccolo esercito personale. Non ci sono mai guerre qui, anche perché dubito esistano altre città oltre alla nostra in questo mondo. Si serve dei suoi soldati per punire chi non rispetta le sue regole. Perciò, prima di portarti nella tua casa, penso che tu debba vedere con i tuoi occhi quali sono queste regole.»
«Nel mio mondo si chiamano leggi» rispose Enna.
«Chiamarle leggi sarebbe un insulto. Sono piuttosto capricci della regina, te ne accorgerai tu stessa» disse Ren affrettando il passo.
Erano giunti nella piazza principale della città. La prima cosa che notò Enna furono due enormi fogli – che sembravano pergamena – pendere al centro della piazza. Ai lati, invece, si ergevano altissime statue di un uomo e una donna. Le loro figure erano scolpite nel marmo e ricordarono ad Enna quelle che, in dimensioni assai minori, erano tante famose nel suo mondo. Le loro mani sorreggevano una lunghissima asta dorata ed era lì che le due enorme pergamene erano state appese.
Enna si avvicinò di qualche passo e, anche se il sole glielo stava rendendo un compito difficile, cominciò a leggere ciò che vi era scritto:

  1. Dal giorno del proprio arrivo si hanno a disposizione sette giorni di tempo per trovare un impiego.
  2. È vietato uscire di casa dalle ore 22.00 alle ore 06.00 del mattino seguente.
  3. È obbligatorio indossare gli abiti del proprio armadio.
  4. È vietato avere degli specchi in casa.
  5. Due persone che vogliono sposarsi devono presentarsi al cospetto della regina per riceverne il consenso.
  6. Non sono tollerati capelli bianchi o rossi.

Dopo aver letto quella stupida regola, la prima cosa che fece Enna, quasi senza accorgersene, fu spostare il suo sguardo su Ren. Sapeva benissimo che i suoi capelli non erano né bianchi né rossi, ma vedere il loro colore chiaro la rassicurò.
«Queste regole sono assurde…» disse Enna con aria contrariata.
«Mi sembrava di avertelo detto» rispose Ren. Continuava a fissare le pergamene ed Enna ebbe la sensazione che stesse cercando di reprimere l'istinto di stracciarle e farle a pezzi.
«Dai, andiamo. Non starò qui ad aspettare che tu le legga tutte dato che, come puoi vedere, sono un centinaio. Avrai tempo. Ti aiuto a cercare casa tua» concluse.
Enna annuì e lo seguì mentre si affrettava ad uscire dalla piazza.
«Un’altra cosa che devi assolutamente sapere è che qui non esiste acqua.»
«Non esiste acqua?» ripeté balbettando Enna.
«In realtà esiste, ma la regina non la voleva nel suo regno, per cui è stata assolutamente bandita. Poco fuori città c'è un'enorme distesa di terra oltre cui nessuno si è mai spinto... si dice che un tempo lì ci fosse l'oceano.»
«E le persone come si dissetano quando hanno sete?»
«L’acqua non è l’unica bevanda al mondo, dico bene?» replicò Ren mentre un sorriso si distendeva sulle sue labbra.

Ci avevano impiegato quasi un’ora per trovare la casa di Enna. Avevano perlustrato tutte le vie della periferia senza ottenere alcun risultato e quando, alla fine, avevano messo piede nella strada in cui abitava Ren, ci avevano messo una manciata di secondi a trovarla. Era proprio di fianco alla sua.
«…e quindi hai una settimana di tempo per provare a renderti utile alla società. Ti consiglio di riuscire a farlo il prima possibile. Le prigioni del castello sono sicuramente meno confortevoli di questa bella casa» concluse Ren fermandosi davanti alla tanto ricercata abitazione.
Enna rimase affascinata a guardarla. Era molto più di ciò che si sarebbe aspettata. Non si parlava di una misera stanza o di un solo appartamento: era una casa tutta intera solo per lei. Al muro, di fianco alla porta, era affissa con un chiodo una targhetta in legno su cui, con bella grafia, era stato scritto il suo nome, come le avevano detto i soldati all’ingresso.
«Bé, non entri? Non sei curiosa?» la incitò Ren.
Enna rispose con un pacato sorriso e si avvicinò alla porta. Fu inutile stringere la maniglia ed abbassarla poiché era chiusa e non si mosse di un millimetro quando Enna tentò di spingerla.
«Che stupida, non ho le chiavi» disse lei sospirando.
«Da qualche parte ci sono di sicuro. Prova a guardare nella borsa… ricordi che ti ho detto che la prima notte ho dormito su una panchina? Bé, quando il giorno dopo mi sono svegliato, mi sono accorto di avere la chiave proprio nella mia tasca. Avrei preferito scoprirlo prima.»
Ren rise per qualche secondo scoprendo una dentatura perfettamente bianca.
Enna infilò una mano dentro la borsa e cominciò a frugare cercando di spiare all’interno. Un portafoglio. Un rossetto. Uno specchietto. Una chiave. La afferrò e la tirò fuori per poi inserirla nella serratura e farla girare un paio di volte. Un rumore metallico l’avvertì che finalmente la porta era aperta, così la spinse appena.
«Entri?» chiese Enna cercando lo sguardo di Ren. Lui sembrò evitarlo.
«È stato veramente un piacere aiutarti, ma devo proprio andare. Ci vediamo, tanto abito qui di fianco a te» replicò riservandole l’ennesimo sorriso.
«Oh… certo. Ci vediamo.»
Enna sentì la delusione colmarla. Forse era stato da stupidi, ma aveva immaginato che, una volta arrivati, Ren sarebbe entrato in casa e che lei lo avrebbe fatto accomodare nel salotto che non aveva nemmeno mai visto. Sarebbe andata in cucina a cercare un po’ di vino e ne avrebbe riempito due bicchieri da svuotare in sua compagnia. Forse la sua fantasia aveva viaggiato troppo. Ren non era altro che un uomo gentile che l’aveva aiutata vedendola in difficoltà… eppure ad Enna sembrava di fiutare nell’aria che qualcosa fosse rimasto incompiuto. Forse neanche Ren voleva andarsene, eppure lo aveva fatto.
Si richiuse la porta alle spalle e cominciò a scoprire la sua nuova casa.


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