lunedì 2 novembre 2015

Dall'acqua nasce l'anima - Capitolo I

I

Dagli occhi di Lisbet

Su quel letto aveva spesso trovato rifugio. Quando il mondo le sembrava troppo difficile da affrontare, troppo veloce da inseguire, troppo complicato da capire, lei semplicemente si lasciava cadere su quel morbido materasso ed insieme al suo corpo sembravano sprofondare anche i problemi. Tutto finalmente si fermava e non c’era niente che potesse raggiungerla lì, nella sua camera. Adesso, quello stesso letto, sembrava aprirsi come una voragine sotto di lei ed in quel precipitare non c’era niente a cui potersi aggrappare per tentare di salvarsi. Niente.
Lisbet accarezzò la sua guancia con estrema lentezza e non appena con le dita l’ebbe percorsa tutta, l’accarezzò di nuovo e di nuovo ancora. Come aveva fatto a non accorgersene fino ad adesso? La verità era stata lì, sul suo corpo, per tutto questo tempo. Sul suo corpo, ma non sotto i suoi occhi.
Non tornerò mai più come prima.
Questa consapevolezza la stava dilaniando dall’interno. Come pretendeva che il mondo la accettasse così come era, se proprio lei, guardando il suo riflesso, ne era rimasta inorridita?
Si rigirò sul letto e affondò la testa sul cuscino che molte volte si era impregnato delle sue lacrime. Cominciò a piangere, ma non fu come le altre volte. Non si sentì più libera, più leggera, più spensierata. Si sentì disperata esattamente come poco prima.
«Lisbet?»
Suo padre aveva bussato un paio di volte alla porta, ma non se ne era nemmeno accorta. Lisbet fece finta di non sentire e cercò di frenare le sue lacrime nel tentativo di non fare rumore.
Vattene, papà, vattene.
Sentiva la sua presenza dietro quella robusta porta di legno chiusa a chiave, sentiva il suo respiro pesante come se potesse oltrepassare quei muri e sfiorare il suo collo.
«Lisbet?» ripeté un po’ più forte.
Tutte le lacrime frenate si erano accalcate in un nodo d’ira nel suo stomaco e improvvisamente afferrò l'abate-jour e la scaraventò con tutta la forza che aveva contro la porta. La lampadina che al suo interno stava emanando una luce stanca si ruppe in tantissimi pezzi che si riversarono al suolo. La stanza piombò nel buio completamente mentre nel silenzio si poteva udire il rumore di passi che si allontanavano.
Se io non posso essere come tutti gli altri, allora saranno gli altri ad essere come me.
Scostò leggermente la tenda e per un po’ stette immobile a scrutare il mondo al di là della sua finestra che le permetteva di vederne solo uno spiraglio. Se lei non poteva tornare come prima, neanche il mondo sarebbe stato più lo stesso.

* * *

Dagli occhi di Enna

Molte volte aveva pensato a come sarebbe stato il giorno in cui, finalmente, avrebbe dato una svolta alla sua vita. Lo aveva immaginato in miliardi di modi diversi e stravaganti, invece sarebbe stata una cosa semplice, come non l’aveva mai pensata.
Enna sfilò gli orecchini e li gettò a terra.
Era una donna sulla trentina. Era elegante e spesso, per essere sempre in ordine, rubava un’ora al suo sonno solamente per sistemare i suoi lunghi capelli castani: li pettinava con una spazzola anche quando erano perfettamente al loro posto. Sembrava quasi un gesto meccanico. Poi, ogni volta, dopo essersi presa cura di loro per tutto quel tempo faceva una cosa incomprensibile: li raccoglieva in uno chignon e li intrappolava con un fermaglio. Chi, vedendo l’intreccio di capelli sul suo capo, se la sarebbe mai potuta immaginare seduta davanti allo specchio mentre li pettinava e guardava assorta il suo riflesso? Chissà a cosa pensava poi veramente mentre la spazzola andava su e giù. Forse quello strano rituale era solo una scusa per fermarsi a pensare.
Enna strofinò una mano sulle sue labbra per pulirle dal rossetto.
Pensava a quel lontano giorno d’agosto dove, sotto le prime gocce di quella che si sarebbe rivelata una tempesta con i fiocchi, con due guance rosse come mele aveva regalato il suo primo bacio ad un ragazzino più piccolo di lei. Pensava a quel giorno, un po’ meno lontano, in cui, mentre un uomo le sussurrava all’orecchio “ti amo”, lei per la prima volta aveva fatto l’amore. O forse, più che alle cose che aveva fatto, pensava a quelle che non aveva ancora fatto o che avrebbe voluto fare: a quell’amico un po’ sfigato, così lo chiamavano, delle superiori con cui avrebbe sempre voluto parlare, ma mai l’aveva fatto per paura di essere etichettata come lui; a quegli allenamenti di calcio che aveva sempre dovuto osservare da dietro i cancelli con la scusa di avere una cotta per il capitano della squadra.
Enna cominciò a camminare e si sfilò la giacca.
Forse pettinava i suoi capelli e li ordinava perché era proprio quello che faceva con i suoi pensieri. Quando raccoglieva i capelli, allora raccoglieva anche i suoi pensieri e li cacciava via, in una parte profonda di sé, lontana. Enna sapeva che ovunque dentro di lei non era lontano abbastanza e che non c’era posto sicuro in cui chiudere quei pensieri, ed infatti la sera scioglieva i capelli e i pensieri tornavano a galla. Di giorno però doveva essere perfetta. Doveva essere l’Enna che tutti conoscevano, che tutti volevano vedere, che tutti dicevano di amare. Prima e dopo invece poteva provare ad essere Enna e basta.
Enna lasciò cadere la borsa sulla strada.
Ci provava, ma non era così facile. Era come recitare tre quarti della propria vita: ad un certo punto il personaggio che stai interpretando non è poi così diverso da quello che sei. Si confondono.
Enna slacciò l’orologio costoso mentre continuava a camminare.
Lavorava in ufficio anche se non le era mai piaciuto farlo. Era un lavoro onesto e le permetteva di mantenersi da sola e soddisfare qualche sfizio per lo meno. Avrebbe sempre voluto essere una stilista, ma questa era un’altra storia. Enna aveva frequentato il liceo perché i suoi genitori erano persone prestigiose e di conseguenze lei doveva essere una brava ragazza. Una brava ragazza non poteva non andare al liceo e così non aveva mai studiato moda. Dato che lavorava in ufficio ogni mattina indossava una gonna scura e una camicia chiara. Mai il contrario.
Enna si fermò un attimo e si sfilò i tacchi per poi lanciarli alle sue spalle.
Improvvisamente, però, si rese conto che la sua vita le andava un po’ stretta. Era come uno di quegli abiti che vestivano meravigliosamente sul manichino e la cui cerniera, quando si decideva di provarlo, faceva una fatica impensabile a salire. Era un abito bellissimo, sì, ma non addosso a te. Non se dovevi indossarlo una sera intera. Enna invece quella vita l’aveva indossata per anni: per questo si era tolta gli orecchini, si era sfilata la giacca, aveva lasciato cadere la borsa e l’orologio, era scesa dai tacchi e poi aveva iniziato a correre. Per quel giorno voleva essere diversa. Detto così è strano perché diversa, in realtà, era stata tutti gli altri giorni della sua vita, meno che quello. Quel giorno sarebbe stata sé stessa. Iniziò a correre e correre, ma la strada che ogni giorno la portava in ufficio sembrava più lunga del solito. Correva, ma quella strada sembrava così dannatamente diversa da quella di tutti i giorni. C’era sempre stata una pasticceria in cui a volte si fermava e poi un passaggio pedonale, adesso invece era solo strada che si srotolava in avanti. Strada e basta, come se l’unica cosa che contasse fosse percorrerla e non ci fosse tempo per fermarsi a fare altro. Tutto era cambiato improvvisamente.

Mentre correva era stata avvolta da un sottile strato di nebbia e si era sentita completamente sperduta. Era sicura però di dover continuare lungo quella strada.
Era passato tanto di quel tempo che non avrebbe saputo dire se fosse passata un’ora o più, quando finalmente la foschia cominciò a disperdersi e qualcosa cominciò ad emergere in lontananza. Un cancello alto e maestoso si ergeva davanti a una città che non aveva mai visto. Tutto quel mondo, in realtà, le sembrava di non averlo mai visto. Ora che finalmente riusciva a vedere, si accorse che la strada sotto ai suoi piedi era in ciottoli bianchissimi ed era tanto pulita che Enna avrebbe giurato non ci fosse mai passata neanche una macchina. A costeggiarla c’erano prati dall’erba verdissima intervallati da maestosi alberi. All’ingresso del cancello si trovavano due uomini – probabilmente soldati – che stonavano con tutto ciò che li circondava. Quella strada, quei prati, quel cancello sembravano far parte della sceneggiatura di una dolce fiaba, ma quegli uomini sorreggevano una lunga lancia minacciosa ed erano rinchiusi in un’armatura di ferro. Enna si avvicinò a loro timidamente: non sapeva dov’era arrivata e non sarebbe stata capace di tornare indietro, ma non era spaventata. Era stupita per lo più.
«Nome, prego» esordì l’uomo a destra rivolgendole uno sguardo che fece capire ad Enna che doveva fermarsi.
«Enna» rispose pacata soffermando il suo sguardo sull’uomo che le aveva rivolto la parola.
L’altro soldato abbassò lo sguardo su un grosso libro poggiato su un alto leggio in legno. Scorse un paio di nomi prima di annuire con il capo.
«Sì, c’è il suo nome. Sarebbe dovuta arrivare tra sette minuti a dire la verità. La sua vita doveva proprio far schifo se si è messa a correre così veloce per sfuggirle, eh?» si rivolse a lei l’uomo. La sua voce era tanto simile a quella dell’altro soldato che, se Enna fosse stata di spalle, sicuramente non sarebbe riuscita a riconoscere chi dei due avesse parlato.
«Io... no... avevo solo paura, non riconoscevo la strada».
«Cercano tutti di negarlo, ma non si preoccupi. Qui finalmente avrà una vita dignitosa. La vita che merita» rispose pacatamente l’uomo.
«La sua nuova abitazione si trova nella periferia della città, ai piedi del monte. C’è il suo nome sopra, per cui la troverà di sicuro» concluse poi il soldato che le aveva inizialmente rivolto la parola.
«Dev’esserci un fraintendimento. Io non volevo recarmi qui, stavo andando a…»
Avete mai provato la sensazione di aver camminato per così tanto tempo da esservi dimenticati sia da dove eravate partiti, sia dove avevate intenzione di arrivare? Probabilmente no. Se ci muoviamo è per arrivare da qualche parte: c’è chi deve presentarsi al suo primo appuntamento, chi deve scattare una fotografia, chi deve correre per non perdere l’aereo che lo porterà a vivere il viaggio che ha sempre desiderato. Il giovinetto, dopo essersi guardato a lungo allo specchio per assicurarsi di essere perfetto, sicuramente non si dimenticherà la fanciulla che lo aspetta al parco; il fotografo, dopo aver cercato la luce e la posizione adatta, non si dimenticherà cosa voleva immortalare nella foto e il povero operaio, dopo una vita di risparmi, non si chiederà, una volta sull’aereo, dove sta andando.
Invece Enna quella sensazione la stava provando.
«Signorina, nessun fraintendimento. Se non vuole passare la notte fuori dai cancelli, la invito ad entrare in città e cercare la sua abitazione. Non appena l’avrà trovata le consiglio di recarsi nella piazza principale: è meglio iniziare a conoscere subito le nostre leggi per evitare spiacevoli inconvenienti. Le prigioni della regina non sono il più ameno dei posti».
I due uomini afferrarono le ante del cancello per le sbarre e le aprirono invitandola ad entrare. Enna inspirò profondamente e ringraziò i due uomini prima di varcare la soglia del cancello e sentirlo chiudersi alle sue spalle.
In lontananza riusciva a scorgere il monte che i due soldati avevano nominato poco prima e, in cima, le pareva di vedere un castello. La strada davanti a sé invece era dritta e di tanto in tanto si diramava in altre piccole stradine. Neanche lei sapeva perché si era arresa tanto facilmente e aveva accettato di rimanere in quel posto. Stava percorrendo la strada principale quando un odore delizioso stuzzicò il suo olfatto: si fece guidare e imboccò un sentiero sulla sua destra. Proveniva da un banchetto di dolci sul ciglio della strada. Enna si avvicinò lentamente mentre sentiva il suo stomaco brontolare per la fame. I suoi occhi cominciarono a vagare in mezzo a tantissimi dolci diversi: biscotti dai più svariati gusti, croissant, pasticcini.
«Nuova, vero?» disse un uomo alle sue spalle.
Enna si voltò e la prima cosa che incrociò furono un paio di occhi verdissimi, come mai aveva visto nella sua vita, che la stregarono. Poi, quando riuscì a liberarsi dall’incanto, vide una pelle liscia e leggermente abbronzata, capelli biondo cenere non troppo lunghi ed un sorriso dai denti bianchissimi.
«Sono qui da cinque minuti. Come ha fatto a capirlo?» domandò.
«Chiunque avrebbe già preso almeno un biscotto da questo banchetto.»
«Ma non ho soldi con me» replicò Enna.
«Non servono soldi qui. Puoi prendere tutto quello che vuoi» rispose sorridendole ancora una volta mentre si avvicinava di un passo ai dolci. Ne afferrò due identici e gliene porse uno. Enna lo strinse tra le mani e lo guardò un attimo prima di assaggiarlo. Non avrebbe saputo dire cos’era, ma sicuramente era ricoperto dalla cioccolata più buona che avesse mai mangiato nella sua vita.
«Se è appena arrivata forse è meglio che qualcuno la aiuti. Io il primo giorno l’ho passato a vagare senza meta e ho dormito su una panchina. Vorrei evitarglielo, se possibile.»
«Accetto volentieri signor…»
«Ren. Ma non mi chiami signore, la prego. Mi fa sentire vecchio e credo di avere più o meno la sua età» disse ridendo per qualche secondo.
«Piuttosto che ne dice di darci del tu?» concluse.
«Certo. Allora, Ren, i soldati all’ingresso mi hanno detto che la mia abitazione si trova ai piedi del monte, in periferia.»
«Ti accompagno volentieri, dato che vivo da quelle parti, se mi riveli il tuo nome.»
«Enna.»
«Bene, Enna… prima di trovare casa tua, che sicuramente è una cosa importante, credo di doverti dire un paio di cose importanti su questo posto» cominciò prima di incamminarsi nuovamente verso la strada principale insieme a lei.
«La prima è che questo mondo si chiama Apparenza. In realtà non è il suo vero nome, ma io lo chiamo così. La seconda cosa è che è impossibile scappare da qui. Nessuno ci è mai riuscito fino ad oggi.»
«Questo posto sembra un sogno. Sono arrivata ed ho già una casa, mentre nel mio mondo comprarne una è una missione. Perché mai qualcuno vorrebbe andarsene da qui?» disse abbozzando un sorriso scherzoso.
«Lo capirai presto Enna, lo capirai presto» disse rispondendo al sorriso.
«Sarò io il primo ad andarmene di qui. Nessuno ci è mai riuscito, ma io ce la farò» aggiunse poi.
«Non stai bene qui?» domandò Enna mentre tornavano sulla strada principale.
«Non si sta troppo male, lo ammetto.»
«Se non stai male, allora vuol dire che stai bene» replicò Enna sicura di sé.
«Dici? La felicità per te è semplicemente assenza di dolore?» domandò Ren incrociando gli occhi di lei. Per la prima volta si rese conto che erano di un blu così intenso che si aveva la sensazione di precipitarvi dentro.
«Einstein diceva che l’oscurità non è altro che assenza di luce e che il freddo non è altro che assenza di calore. La felicità, allora, è assenza di dolore» rispose ricambiando lo sguardo.
Lo sguardo di Ren si fece pensieroso ed assente mentre la sua mente macinava idee e idee e cercava una risposta convincente a quell'affermazione.
«Non penso che sia così... credo che sia un modo di vedere la vita un po' cinico e triste. Ma se metti in mezzo Einstein chi sono io per ribattere? Per questa volta mi hai fregato» ammise abbozzando un sorriso.
Anche Enna sorrise. Non lo fece solo perché era riuscita a far prevalere in un certo senso il suo pensiero, ma perché Ren forse non se ne sarebbe andato. Quando aveva visto i suoi occhi aveva pensato che fossero la cosa più bella del mondo e se lui non sapeva rispondere a quella semplice affermazione, forse, non se ne sarebbe andato.
«Comunque, ti stavo dicendo... In cima al monte, come avrai notato, si trova il castello della regina Lisbet. È lei che regna qui e nessuno osa disobbedirle. Quelli che hai visto all’entrata sono i suoi soldati. Ha un piccolo esercito personale. Non ci sono mai guerre qui, anche perché dubito esistano altre città oltre alla nostra in questo mondo. Si serve dei suoi soldati per punire chi non rispetta le sue regole. Perciò, prima di portarti nella tua casa, penso che tu debba vedere con i tuoi occhi quali sono queste regole.»
«Nel mio mondo si chiamano leggi» rispose Enna.
«Chiamarle leggi sarebbe un insulto. Sono piuttosto capricci della regina, te ne accorgerai tu stessa» disse Ren affrettando il passo.
Erano giunti nella piazza principale della città. La prima cosa che notò Enna furono due enormi fogli – che sembravano pergamena – pendere al centro della piazza. Ai lati, invece, si ergevano altissime statue di un uomo e una donna. Le loro figure erano scolpite nel marmo e ricordarono ad Enna quelle che, in dimensioni assai minori, erano tante famose nel suo mondo. Le loro mani sorreggevano una lunghissima asta dorata ed era lì che le due enorme pergamene erano state appese.
Enna si avvicinò di qualche passo e, anche se il sole glielo stava rendendo un compito difficile, cominciò a leggere ciò che vi era scritto:

  1. Dal giorno del proprio arrivo si hanno a disposizione sette giorni di tempo per trovare un impiego.
  2. È vietato uscire di casa dalle ore 22.00 alle ore 06.00 del mattino seguente.
  3. È obbligatorio indossare gli abiti del proprio armadio.
  4. È vietato avere degli specchi in casa.
  5. Due persone che vogliono sposarsi devono presentarsi al cospetto della regina per riceverne il consenso.
  6. Non sono tollerati capelli bianchi o rossi.

Dopo aver letto quella stupida regola, la prima cosa che fece Enna, quasi senza accorgersene, fu spostare il suo sguardo su Ren. Sapeva benissimo che i suoi capelli non erano né bianchi né rossi, ma vedere il loro colore chiaro la rassicurò.
«Queste regole sono assurde…» disse Enna con aria contrariata.
«Mi sembrava di avertelo detto» rispose Ren. Continuava a fissare le pergamene ed Enna ebbe la sensazione che stesse cercando di reprimere l'istinto di stracciarle e farle a pezzi.
«Dai, andiamo. Non starò qui ad aspettare che tu le legga tutte dato che, come puoi vedere, sono un centinaio. Avrai tempo. Ti aiuto a cercare casa tua» concluse.
Enna annuì e lo seguì mentre si affrettava ad uscire dalla piazza.
«Un’altra cosa che devi assolutamente sapere è che qui non esiste acqua.»
«Non esiste acqua?» ripeté balbettando Enna.
«In realtà esiste, ma la regina non la voleva nel suo regno, per cui è stata assolutamente bandita. Poco fuori città c'è un'enorme distesa di terra oltre cui nessuno si è mai spinto... si dice che un tempo lì ci fosse l'oceano.»
«E le persone come si dissetano quando hanno sete?»
«L’acqua non è l’unica bevanda al mondo, dico bene?» replicò Ren mentre un sorriso si distendeva sulle sue labbra.

Ci avevano impiegato quasi un’ora per trovare la casa di Enna. Avevano perlustrato tutte le vie della periferia senza ottenere alcun risultato e quando, alla fine, avevano messo piede nella strada in cui abitava Ren, ci avevano messo una manciata di secondi a trovarla. Era proprio di fianco alla sua.
«…e quindi hai una settimana di tempo per provare a renderti utile alla società. Ti consiglio di riuscire a farlo il prima possibile. Le prigioni del castello sono sicuramente meno confortevoli di questa bella casa» concluse Ren fermandosi davanti alla tanto ricercata abitazione.
Enna rimase affascinata a guardarla. Era molto più di ciò che si sarebbe aspettata. Non si parlava di una misera stanza o di un solo appartamento: era una casa tutta intera solo per lei. Al muro, di fianco alla porta, era affissa con un chiodo una targhetta in legno su cui, con bella grafia, era stato scritto il suo nome, come le avevano detto i soldati all’ingresso.
«Bé, non entri? Non sei curiosa?» la incitò Ren.
Enna rispose con un pacato sorriso e si avvicinò alla porta. Fu inutile stringere la maniglia ed abbassarla poiché era chiusa e non si mosse di un millimetro quando Enna tentò di spingerla.
«Che stupida, non ho le chiavi» disse lei sospirando.
«Da qualche parte ci sono di sicuro. Prova a guardare nella borsa… ricordi che ti ho detto che la prima notte ho dormito su una panchina? Bé, quando il giorno dopo mi sono svegliato, mi sono accorto di avere la chiave proprio nella mia tasca. Avrei preferito scoprirlo prima.»
Ren rise per qualche secondo scoprendo una dentatura perfettamente bianca.
Enna infilò una mano dentro la borsa e cominciò a frugare cercando di spiare all’interno. Un portafoglio. Un rossetto. Uno specchietto. Una chiave. La afferrò e la tirò fuori per poi inserirla nella serratura e farla girare un paio di volte. Un rumore metallico l’avvertì che finalmente la porta era aperta, così la spinse appena.
«Entri?» chiese Enna cercando lo sguardo di Ren. Lui sembrò evitarlo.
«È stato veramente un piacere aiutarti, ma devo proprio andare. Ci vediamo, tanto abito qui di fianco a te» replicò riservandole l’ennesimo sorriso.
«Oh… certo. Ci vediamo.»
Enna sentì la delusione colmarla. Forse era stato da stupidi, ma aveva immaginato che, una volta arrivati, Ren sarebbe entrato in casa e che lei lo avrebbe fatto accomodare nel salotto che non aveva nemmeno mai visto. Sarebbe andata in cucina a cercare un po’ di vino e ne avrebbe riempito due bicchieri da svuotare in sua compagnia. Forse la sua fantasia aveva viaggiato troppo. Ren non era altro che un uomo gentile che l’aveva aiutata vedendola in difficoltà… eppure ad Enna sembrava di fiutare nell’aria che qualcosa fosse rimasto incompiuto. Forse neanche Ren voleva andarsene, eppure lo aveva fatto.
Si richiuse la porta alle spalle e cominciò a scoprire la sua nuova casa.


Dall'acqua nasce l'anima - Capitolo II

II


Una delle cose che ad Enna piacque più di quel mondo fu che il tempo non le mancava. A dire il vero non ricordava più molto della sua vita prima di varcare quel cancello, ma era sicura di non aver mai avuto troppo tempo da dedicare a se stessa. La sua vita era troppo impegnata, troppo frenetica, era troppo per lei. Invece ad Apparenza aveva avuto tutto il tempo per esplorare la sua nuova casa da cima a fondo, aveva potuto concedersi un lungo bagno ristoratore a mollo nell’acqua calda e aveva potuto cucinare il suo piatto preferito senza doversi accontentare del cibo in scatola. C’era il tempo di fare tutto in effetti, ma soprattutto c’era tempo per sentirsi soli. Aveva cercato di tenersi occupata il più possibile per ricacciare in fondo allo stomaco quella sensazione di solitudine che la tormentava da quando, il giorno prima, Ren l’aveva salutata. Sei nuova, è normale sentirsi così si ripeteva.

Aveva una settimana soltanto per riuscire a trovare un lavoro e, considerando che un giorno dal suo arrivo era già passato, le restavano sei giorni. L’ultima cosa che avrebbe voluto era ritrovarsi l’ultimo giorno con il fiato sul collo e nulla di fatto per cui aprì il suo nuovo armadio e rimase stupita dalla varietà – e soprattutto quantità – di vestiti che vi trovò all’interno. Fu una decisione difficile, ma alla fine optò per un semplice pantalone leggero ed una maglia con una fantasia floreale. Stava scegliendo la borsa da abbinare quando, al piano di sotto, qualcuno bussò alla porta. Enna sembrava non aspettare altro perché si fiondò giù per le scale a piedi scalzi e per qualche secondo stette immobile davanti alla porta. Non voleva dare l’impressione di qualcuno che avesse corso. Lentamente aprì la porta e un sorriso fiorì sulle sue labbra non appena incrociò lo sguardo dell’uomo che aveva bussato.
«L’invito di ieri è ancora valido? Mi fai entrare?» domandò Ren ricambiando il sorriso.
«Certo, almeno oggi so dove farti accomodare. Ho avuto tempo per conoscere a sufficienza questo posto» rispose invitandolo ad entrare e indicandogli il salotto.
«Siediti pure dove preferisci» disse quando lo ebbe raggiunto.
Ren si lasciò sprofondare su una poltrona a cui, al di là di un basso tavolino di vetro, ne corrispondeva una gemella in cui sedette Enna.
«Non ho preso niente da bere, tu cosa preferisci? Caf…»
«Non ti preoccupare, sono a posto così» la interruppe.
«In realtà sono venuto qui perché ieri sono stato uno stupido. Quando mi hai chiesto se volevo entrare, ecco, io avrei voluto farlo. Poi ho pensato che presto me ne sarei andato da qui, potrebbe essere questione di giorni forse. Sarebbe stato meglio per me e per chi mi sta intorno non fare nuove amicizie perché sarebbe significato un ostacolo in più alla mia fuga. Però… credo tu sia una persona che vale la pena conoscere.»
I loro occhi si erano sfiorati più volte mentre Ren parlava, ma alla fine le guance di Enna arrossirono e per l’imbarazzo rivolse il suo sguardo altrove. Non sapeva cosa rispondere, ma delle urla che provenivano fuori dalla finestra la cacciarono dall’impiccio.
«NO, FERMATEVI! NON PORTATE VIA LA MIA BAMBINA!» si sentiva urlare.
Entrambi si alzarono dalle loro poltrone e si avvicinarono alla finestra.
«Posso aprirla?» chiese Ren.
«Certo.»
Quando Enna si sporse vide una donna in lacrime urlare e dimenarsi contro due soldati che la tenevano stretta. Tentava disperatamente e con tutte le sue forze di sfiorare le dita di una bambina che altri uomini stavano trascinando via.
«ALISON! RIDATEMI LA MIA ALISON, PRENDETE ME AL SUO POSTO!»
«E cosa ce ne facciamo di lei, signora? Dovrebbe solamente essere orgogliosa di avere una bambina come Alison. La regina dice di non aver mai visto delle labbra tanto morbide e rosse. Dovrebbe essere un onore sapere che quelle labbra daranno il colore alla glassa sopra i dolci della regina» rispose schernendola uno dei soldati mentre la bambina veniva caricata su un carro e nascosta da una tenda.
La donna continuò a disperarsi e si buttò per terra, abbandonandosi al suo dolore. I soldati la lasciarono e salirono sul carro che, rapidamente, si allontanò da quella strada.
«Povera Alison… era una bambina tanto intelligente» sospirò Ren.
«Che diamine è successo?» domandò Enna senza capire.
«Uno dei problemi di questo mondo, Enna, è che è senza colore. Nel castello esiste una specie di immenso laboratorio in cui dei macchinari assorbono il colore dalle persone… hai sentito cosa diceva quel soldato? Hanno preso quella bambina per avere il colore delle sue labbra e poterlo dare alla glassa che la regina mangerà a colazione» disse con disprezzo Ren.
«E dopo che hanno preso il colore che serve loro cosa ne fanno di queste persone? Non tornano a casa?»
«No, Enna. Rimangono chiuse in quel laboratorio. Ci sono colori così difficili da trovare altrove che non se li farebbero mai sfuggire» replicò Ren.
«E se avessi i tuoi bellissimi occhi blu, io starei molto attento. Non darei mai occasione alla regina Lisbet di poterli vedere. Mai, neanche per un solo attimo» concluse poi.
«Non sono così speciali» rispose Enna imbarazzata.
«Sì lo sono. Non ho mai visto niente di simile, te lo assicuro… la prima volta che li ho visti mi hanno fulminato.»
Forse capì di averla messo in imbarazzo nuovamente, perché si affrettò a cambiare discorso.
«L’altra ragione per cui ho bussato alla tua porta è che stasera tengono un ballo. Non sarebbe una cattiva idea andarci, anche perché tu sei nuova e hai bisogno di fare nuove amicizie, per quando io non ci sarò più.»
«E se io venissi con te?» domandò Enna ancora prima di pensarci.
«Certo che vieni con me, altrimenti non sarei venuto qui, no?»
«No, intendo… se io fuggissi con te da questo posto? Saremmo i primi.»
«Non mi avevi preso per pazzo quando dicevo di voler fuggire? Dicevi che questo posto non ti sembrava tanto male. Anche io lo pensavo all’inizio. Comunque alla mia – o nostra – fuga sarà meglio pensare un’altra volta. Intanto sarà meglio prepararsi per il ballo di stasera.»
«Veramente… io volevo provare a trovare un lavoro da qualche parte oggi. Mi hai abbastanza terrorizzato parlandomi delle prigioni del castello…»
Era un misero tentativo di farsi desiderare: andare a quel ballo con lui era tutto ciò che desiderava.
«Ormai il giorno sta per finire e poi ti prometto che se stasera vieni al ballo con me, domani ti aiuterò io a cercarne uno» insistette Ren.
Enna sorrise, facendo cedere con piacere le sue difese.

Ci aveva messo una decina di minuti ma alla fine aveva scelto il vestito da indossare per il ballo. Era di un colore blu acceso e mentre dalla vita in su stringeva come un corpetto, più in basso la gonna era gonfia. Si guardò intorno, ma non trovò neanche il più piccolo specchio. Afferrò la spilla che aveva deciso di infilare tra i suoi capelli castani e uscì dalla camera.
«Ren?» chiamò a voce alta.
«Sono in salotto» replicò.
Lo trovò affacciato alla finestra, ma indossava vestiti diversi da quando lo aveva lasciato lì.
«Non mi sembrava che tu avessi una camicia bianca e pantaloni neri così eleganti quando hai bussato alla mia porta» esordì Enna sorridendo.
«Ho pensato di cambiarmi mentre lo facevi anche tu. Il tempo è prezioso, è bene non perderne» disse ricambiando il sorriso mentre spostava i suoi occhi dalla finestra e li appoggiava su Enna.
«Sei bellissima» continuò avvicinandosi.
«Forse lo sarei se potessi chiudere la zip di questo abito e raccogliermi i capelli, ma non ho trovato uno specchio in tutta la casa» sbuffò scocciata.
«E non lo troverai… è un’altra delle cose che mancano qui.»
Ricordò di averlo letto anche su una di quelle due pergamene. Per un attimo si sentì smarrita. Ricordava le lunghe ora passate la mattina davanti allo specchio a pettinare i suoi capelli e a pensare.
«Il vestito posso chiuderlo io, se vuoi» si propose Ren.
«Sì, certo» disse Enna portandosi davanti a lui per poi voltarsi e dargli le spalle. Con una mano spostò i suoi lunghi capelli e li appoggiò sulla spalla, davanti, in modo che non potessero infastidirlo.
Ren afferrò la zip e con estrema lentezza la tirò su.
«Faccio lentamente perché non vorrei mai che questo bellissimo vestito si rompa… e per quanto riguarda i capelli credo di non poterti aiutare, non sono mai stato un gran parrucchiere.»
«Al diavolo! Non sono mai uscita di casa con i capelli in questo modo… con o senza uno specchio ci riuscirò… l’ho fatto tante di quelle volte!»
Chinò appena il capo e con la mano destra afferrò i suoi capelli e con movimenti che conosceva ormai a memoria li ordinò sul suo capo per poi stringerli in una sfarzosa spilla blu.
«Bene, siamo quasi pronti» disse Ren afferrando due maschere che aveva lasciato sul davanzale della finestra. Ad Enna ne porse una quasi dello stesso colore del suo abito e della sua spilla.
«Non mi avevi detto fosse un ballo in maschera» disse lei afferrandola e rigirandosela tra le mani.
«Fa qualche differenza?»
«No… solo che è sempre stato il mio sogno partecipare ad un ballo in maschera» confidò sorridendo.
«Penso lo sia stato per ogni bambina a questo mondo... e anche per qualche bambino probabilmente. Credo che non lo dimenticherai facilmente» replicò Ren mostrando il sorriso divertito di chi trama qualcosa.

«Ormai siamo arrivati» disse Enna dopo che ebbe finito di ridere rivolgendo lo sguardo a due soldati davanti al cancello del castello.
«Anche se passare per quelle due guardie all’ingresso mi mette un po’ di ansia… c’è bisogno di tante armi per un semplice ballo?» continuò poi rallentando il passo.
«Non passeremo di lì, Enna» rispose Ren fermandosi.
«Non è l’ingresso quello? Di lì si accede al giardino sembra e si sente anche la musica…»
«Non ho detto che quello non è l’ingresso… semplicemente non passeremo di là.»
«E perché?» domandò abbassando la voce per paura che i due soldati potessero sentirli.
«Perché teoricamente non siamo stati invitati. In pratica ho un sacco di amici all’interno del castello. Una volta superate le guardie il gioco è fatto» rispose stringendosi nelle spalle.
«Intendevi questo quando dicevi che non mi sarei dimenticata facilmente di questa serata? Non ci penso minimamente ad infiltrarmi ad una festa a cui non sono stata invitata! Nel castello! Potrebbero tagliarci la testa per quanto ne so» ribatté Enna determinata.
«Enna, questa non è una festa qualunque. È un ballo in maschera, tu stessa hai detto che era il tuo sogno poterne far parte. Dopo tutta la fatica che hai fatto per scegliere il vestito e arrivare fin qua…» cercò di persuaderla Ren con il tono più docile e innocuo che avesse mai finto.
«Non l’avrei fatta se avessi saputo quali erano i programmi» sbuffò lei lanciando un’occhiata alle due guardie.
«È un'occasione che non si ripeterà, Enna. Ti prometto che non succederà niente di male, l'ho fatto tante di quelle volte che neanche immagini. Non ti metterei mai in pericolo» continuò Ren. Prima le sfiorò timidamente la mano, poi, avvicinandosi, la strinse nella sua. Enna sentì un colpo di martello nel petto. Tutto sembrò fermarsi per un istante.
«D'accordo» disse poi. Era bastato il tocco della sua mano per annullare la paura.
«Ma sappi che non mi fiderò mai più di te» aggiunse poi.
Ren abbozzò un sorriso e avanzò verso gli alberi che nascondevano un piccolo sentiero. Enna lo seguì e notò che quel percorso tracciato per terra costeggiava perfettamente, a qualche metro di distanza, le mura.
«Dimmi che almeno non dovremo camminare molto. Non credo tu l'abbia mai provato, ma camminare con i tacchi su questo terreno non è proprio una passeggiata!»
«E questa non è neanche la parte più difficile...» disse Ren accennando un sorriso divertito.
«Cosa intendi?» domandò Enna, ma stranamente non era agitata.
«Eccoci. Vedi là?» chiese mentre assottigliava gli occhi per mettere a fuoco meglio.
«Una parte delle mura è crollata e passeremo di lì. Scavalcare sarà un gioco da ragazzi, l'ho fatto spesso» concluse soddisfatto avvicinandosi alle mura.
«È un gioco da ragazzi se sei vestito con un pantalone e una camicia bianca» replicò seguendolo.
«Comunque hai detto che sei passato di qui già molte volte. Da quanto le mura sono in questo stato? Mi sembra strano... in questo mondo tutto sembra perfetto, non c'è neanche una virgola fuori posto e proprio il castello della regina è in queste condizioni?»
«Probabilmente non se ne è mai accorta. Dall'altra parte si trovano gli orti dove lavorano i contadini. La regina non passa mai di qui, quello che importa è che i frutti e le verdure giungano alla sua tavola in perfetto stato. Più in là si trovano dei bellissimi giardini dove invece è solita passare il suo tempo, specie in estate.»
«I contadini però se ne saranno accorti, no? Non è un crollo che passa inosservato» asserì Enna spostando il suo sguardo sul cumulo di pietroni che giaceva ai piedi delle mura.
«E per quale motivo avrebbero dovuto dirlo alla regina? Tu sei appena arrivata e ci sono ancora tanti aspetti di questo mondo che devi ancora scoprire. Quella breccia nel muro è una speranza per molti. Alison, la bambina che le guardie hanno portato via poco fa, sarà prigioniera di questo castello per l'eternità e non potrà mai più rivedere la sua famiglia... a meno che non si affacci da questo muro e, dall'altra parte, ci sia sua madre ad aspettarla. Non potrà mai scappare perché la regina se ne accorgerebbe, ma almeno avrà una speranza a cui aggrapparsi... è una speranza anche per me e te, altrimenti come faremmo a partecipare a questo ballo?» cercò di sdrammatizzare alla fine.
«Prima le signore» aggiunse quando entrambi si furono fermati davanti al cumulo di pietre.
Enna sfilò i tacchi e li affidò a Ren in modo da poter scavalcare il muro più facilmente. Salì in cima all'ammasso di quelle piccole macerie e poi, facendo attenzione a non rimanere impigliata da nessuna parte col vestito, si issò sul muretto. Non fu affatto difficile. Anche all'interno del giardino, addossato al muro, si trovava lo stesso mucchio di sassi e quindi scendere fu altrettanto facile. Quando Enna toccò con i suoi piedi nudi il terreno sotto di lei lo sentì arido come mai lo aveva sentito in tutta la sua vita. Non credeva che l'assenza di acqua comportasse anche l'assenza di pioggia: era sicura che su quella terra non pioveva da almeno un paio di anni. Il suo sguardo vagò un attimo alla ricerca degli orti di cui Ren aveva accennato poco fa e li trovò alla sua destra. Come facevano i frutti a crescere così maturi in un terreno all'apparenza così poco fertile? Si voltò per chiederlo a Ren, che sicuramente le avrebbe saputo rispondere, quando si accorse che dietro di lei non c'era. Ci voleva tanto a scavalcare quel muro? Lei ci aveva impiegato una manciata di secondi pur essendo ostacolata dall'abito blu. Sbuffò e si avvicinò di qualche passo alle mura, decisa a guardare cosa Ren stesse mai combinando, quando una voce alle sue spalle la raggiunse.
«Si è persa signorina?» chiese una donna. Era vestita in modo umile: sicuramente non una degli invitati al ballo. Forse lavorava per la regina?
«Io... sì, mi sono persa. Stavo cercando i bagni» mentì Enna lanciando un'occhiata preoccupata alle sue spalle. Perché Ren non arrivava?
«Se vuole posso accompagnarla io» si offrì la donna invitandola a raggiungerla.
«Grazie, è molto gentile da parte sua, ma non ce n'è bisogno.»
«Non si preoccupi, vivo in questo castello da moltissimi anni ed è un piacere aiutarla. All'inizio mi sono persa tante volte anche io, sa?» insistette la donna che aveva voglia di scambiare quattro chiacchiere.
Enna fu costretta a seguirla. Nonostante sorridesse continuamente alla donna che si era gentilmente offerta di mostrarle la strada e ogni tanto rispondesse, il suo pensiero era rivolto a Ren. Forse non aveva scavalcato il muro per non essere visto da quella signora e adesso le stava seguendo per raggiungerla non appena fosse stata sola... eppure quando, di tanto in tanto, si guardava velocemente alle spalle di lui non c'era traccia.
Quando Enna uscì dai bagni, dopo esserci stata dentro qualche minuto senza fare assolutamente niente, la contadina si offrì di scortarla fino al grande giardino in cui si stava svolgendo il ballo. Enna strinse i pugni. Era tutto ciò che avrebbe voluto evitare.
«Posso dirle che è una delle invitate più incantevoli che io abbia mai visto in tutti questi anni? I suoi occhi hanno un colore così bello che mi stupisco del fatto che la regina non l'abbia ancora portata nei suoi laboratori. Dovete essere proprio grandi amiche se le ha risparmiato una simile sorte.»
Enna distolse lo sguardo imbarazzata senza rispondere niente. La paura cominciò nuovamente a rosicchiarle lo stomaco dal fondo. Ren le aveva detto scherzosamente di stare attenta a dove posava il suo sguardo, ma adesso si rendeva conto che non era solo un gioco. Era un pericolo reale. Era così persa nei suoi pensieri che si accorse di essere arrivata solamente quando la donna si congedò.
«È stato un piacere accompagnarla. Sono sicura che sarà in grado di trovare il suo uomo anche senza il mio aiuto. Buona serata.»
Enna rispose con un sorriso amaro. Quanto avrebbe voluto che quelle parole fossero vere.
Davanti a lei numerose coppie danzavano illuminate da una luna che sembrava puntare appositamente su di loro i suoi riflettori. I musicisti suonavano poco lontano dalla pista creando una musica dolce con l'intreccio dei loro diversi strumenti. La pista era delimitata da alcune aiuole in cui crescevano fiori dai più disparati e bizzarri colori. Quello era il ballo in maschera che Enna aveva sempre visto nei suoi sogni, con la piccola differenza che adesso era realtà.
Decise che non poteva stare impalata a guardarsi intorno e che doveva confondersi in mezzo agli altri per dare meno nell'occhio. Si avvicinò ai tavoli imbanditi di ogni tipo di cibo e quando vide un vassoio con bicchieri riempiti di vino, ne afferrò uno e cominciò a sorseggiarlo guardandosi intorno di tanto in tanto. Sperava ancora di vedere Ren da un momento all'altro.
«Sei qui da sola?» domandò una donna che le si era affiancata nel frattempo.
Enna si voltò e incrociò il suo sguardo. Era una donna sulla cinquantina e nonostante il suo volto fosse in parte nascosto da una maschera color bronzo, dagli occhi stanchi che ne emergevano Enna indovinò le piccole rughe che piegavano la sua pelle.
«No, in realtà mi sono allontanata e adesso sto cercando il mio uomo» rispose Enna cercando di apparire il più calma possibile. Mentire non era mai stato il suo forte.
«Non posso fare a meno di notare che tutti gli uomini sono già impegnati con una dama. Vede, sono qui da sola, e li ho studiati a lungo» replicò la donna rivolgendo il suo sguardo alla pista da ballo.
Enna non rispose nulla. Era appena arrivata e già qualcuno aveva capito che stava mentendo e che non era stata veramente invitata?
«In più ho notato che è scalza. Che fine hanno fatto le sue scarpe? Sono forse quelle blu che intravedo tra le mani di quegli uomini laggiù?» domandò indicando il sentiero che, dal cancello che aveva visto con Ren, conduceva alla pista da ballo. I due soldati che sorvegliavano l'entrata del giardino si stavano lentamente avvicinando ed uno dei due aveva in mano le sue scarpe. Quelle che aveva affidato a Ren. Lo avevano preso. O forse era riuscito a scappare e si era lasciato cadere le scarpe...
Enna indietreggiò di un passo spaventata, quando sentì la presa salda della donna sul suo braccio.
«Credo che abbiano già notato i tuoi piedi scalzi. Anche se sono uomini, non sono stupidi. Se vuoi avere una remota possibilità di passarla liscia, fai quello che ti dico. Sono qui per aiutarti» disse con tono severo.
Enna rimase immobile per qualche secondo a studiare lo sguardo di quella donna.
«Non c'è tempo di pensare, devi fidarti di me!» sbuffò la donna seccata lanciando un'occhiata verso i due soldati.
«Comincia a farti spazio in mezzo a tutte queste persone come se niente fosse e non appena le avremo superate inizia a correre. Dopo la siepe a destra troverai una porta di legno, fiondati dentro. Soprattutto, fai finta di non conoscermi» disse la donna illustrandole rapidamente il suo piano.
Enna non aveva altre possibilità e così seguì le indicazioni della donna. Cominciò a scivolare in mezzo alle persone senza mai voltarsi indietro, diretta alla sua meta. Il cuore martellava sempre più forte nel suo petto e la paura la aggrediva più violentemente ad ogni suo passo. Quando finalmente riuscì a svincolarsi da quella piccola folla si ritrovò davanti ad un sentiero costeggiato da alti siepi. Erano quelle di cui parlava la donna poco prima. Inspirò profondamente e cominciò a correre lungo quel sentiero, attenta a non inciampare nel suo suo stesso vestito che le era di intralcio. La donna dalla maschera di bronzo cominciò a correrle dietro, come se stesse cercando di inseguirla. La musica si fermò di colpo e il suono di un violino echeggiò per qualche secondo nell'aria. Poi, dal silenzio, emersero le urla dei due soldati.
«È lei, è lei! Inseguitela!»
Enna si voltò per un attimo senza smettere di correre. Calcolò che aveva un grande vantaggio sui soldati che avevano appena urlato, ma la paura strinse un nodo più forte attorno al suo petto quando vide che altri due soldati, più vicini, avevano iniziato a rincorrerla. Prese a correre più veloce e quando credette di non farcela – più per il terrore che per la fatica – finalmente alla sua destra vide la porta di legno. Vi si lanciò contro e la porta si aprì senza alcuna difficoltà.
E adesso? Cosa avrebbe fatto?
Si guardò un attimo attorno e realizzò di trovarsi nelle cucine di quel grande palazzo. Molte donne si muovevano tra pentole e fornelli, mentre alcuni uomini afferravano grandi vassoi per rifornire i grandi tavoli imbanditi del giardino. La porta si aprì nuovamente ed entrò la donna che la stava aiutando.
«Forza, entra in quello stanzino! Togliti il vestito, troverai delle divise, indossane una!» disse mentre cercava di recuperare fiato.
Enna corse verso la porta che le aveva indicato e vi entrò senza perdere tempo. Una luce soffusa illuminava cassette di patate, carote e ogni tipo di verdura accatastate contro le pareti. I suoi occhi vagarono tra le cassette e gli scaffali colmi di vino fino ad incontrare un paio di divise appese ad alcuni chiodi affissi alla parete, dall'altra parte della stanza. Enna le raggiunse di corsa e velocemente si sfilò il vestito blu e la maschera, lasciandoli cadere entrambi per terra. Afferrò i pantaloni e la camicia color sabbia della divisa e li indossò più velocemente che poteva. Poi afferrò il grembiule e lo strinse attorno al suo corpo con il peggior nodo che avesse mai fatto in tutta la sua vita.
«Dov'è andata?» sentì chiedere dall'altra stanza. Era la voce di un uomo: i soldati erano entrati in cucina.
«Io, non lo so... l'ho rincorsa fin qui quando ho capito che la stavate cercando, credo che sia uscita di là» rispose la donna dalla maschera di bronzo.
Si sfilò gli anelli e il bracciale che avrebbero tradito il suo travestimento e infine indossò le scarpe e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Quei soldati non l'avevano vista in faccia e, vestita così, non l'avrebbero mai riconosciuta.
Il pomello della porta cominciò a girare lentamente ed Enna ebbe un tuffo al cuore quando, abbassando gli occhi, vide il vestito blu ai suoi piedi. Lo afferrò in fretta e furia mentre sentiva lo scricchiolio della porta che si apriva e si nascose nella penombra. Un soldato avanzava lentamente all'interno della stanza ma, fortunatamente, non verso di lei. Cercando di non fare rumore Enna sollevò il telone accatastato su alcune pile di cassette vuote al suo fianco e vi infilò il vestito sotto. Poi afferrò due bottiglie di vino dallo scaffale e, come niente fosse, si diresse verso la porta.
«Cercavo proprio del vino» esclamò l'uomo entusiasta.
Enna si fermò davanti all'uomo porgendogli le bottiglie.
«Più buono di questo non ce n'è, glielo assicuro» improvvisò abbozzando un sorriso. Sollevò appena lo sguardo e notò che l'uomo non sembrava neanche ascoltarla, piuttosto stava fissando qualcosa sulla sua testa.
Enna trasalì. La spilla blu. Aveva dimenticato di sciogliere i capelli e di nascondere la spilla insieme al vestito. L'uomo avanzò di un passo verso di lei ed Enna sollevò completamente lo sguardo incrociando quello del soldato. L'uomo si fermò, ammaliato da quegli occhi.
«Con permesso» tagliò corto Enna senza aspettare che il soldato afferrasse le bottiglie. Uscì dalla stanza e cercò di confondersi in mezzo alle altre donne. Si guardò intorno. Il soldato nello stanzino era l'ultimo rimasto: gli altri probabilmente avevano seguito le indicazioni della donna che l'aveva aiutata. Appoggiò le due bottiglie sul primo ripiano che trovò e, assicurandosi che nessuno la stesse guardando, tolse la spilla dai capelli. La infilò nella tasca del grembiule e inspirò profondamente.
C'era mancato poco, ma l'aveva scampata.

Aveva vagato per la cucina a lungo prima che la donna tornasse. Aveva cercato di rendersi utile in un qualche modo per non dare troppo nell'occhio ed alla fine si era limitata a cercare nel ripostiglio ciò che serviva in cucina.
«Li ho convinti che sei riuscita a scappare» disse la donna avvicinandosi. Il suo tono non era più tanto severo ed anche dall'espressione del suo viso si poteva vedere quanto fosse più rilassata.
«Non so se potrò mai ringraziarla abbastanza.»
«Potresti iniziare con il dirmi come ti chiami... io sono Ruth» disse sfilandosi la maschera di bronzo.
«Enna... sono nuova di qui. A dire la verità sono arrivata proprio questa mattina, non avevo idea di ciò che stavo facendo» disse spostando il suo sguardo imbarazzato.
«E così sei nuova?» domandò Ruth assumendo un'espressione pensierosa.
«Nessuno è così audace da provare a intrufolarsi nel castello il suo primo giorno... anzi, nessuno è così audace da provare a intrufolarsi nel castello e basta. Tranne forse una persona.»
«Ren?» incalzò Enna speranzosa.
«Sì, Ren» annuì Ruth.
Le aveva detto di avere tanti amici all'interno del castello. Ruth era una di quelli.
«A dire il vero sono preoccupata per lui... mi ha fatto scavalcare il muro e poi è sparito. Aveva lui le mie scarpe, quindi forse sono riusciti a prenderlo» disse sconsolata.
Ruth la inchiodò con lo sguardo immersa nei suoi pensieri. Dopo qualche secondo di silenzio una lampadina sembrò accendersi nella sua mente.
«C'è solo un modo per scoprirlo. Io sono a capo di questa cucina e purtroppo non posso muovermi liberamente in questo castello... ma tu... tu potresti. Se questo è il primo giorno che sei qui sicuramente non avrai un lavoro e io potrei procurartene uno qui al castello. Se è prigioniero qui, lo scopriresti in poco tempo e se non lo è... ti ho risparmiato la fatica di cercare un lavoro» concluse accennando un sorriso.
Enna lo ricambiò timidamente.
«Se prima le dovevo un'enorme grazie, adesso non so di che dimensioni dovrebbe essere per esprimerle tutta la mia gratitudine» disse Enna.
Il sorriso di Ruth per un attimo sembrò distendersi sul suo viso prima che serrasse le labbra nell'espressione severa di poco prima.
«Lo faccio per Ren. È un mio grande amico e se ti ha portato con lui ad un ballo vuol dire che hai fatto colpo.»
Enna sorrise tra sé e sé. Lui aveva bussato alla sua porta perché pensava lei fosse una persona che valeva la pena conoscere. Forse non se ne sarebbe andato così in fretta. Forse sarebbe rimasto per lei. Se solo lo avesse trovato.