I
Dagli
occhi di Lisbet
Su
quel letto aveva spesso trovato rifugio. Quando il mondo le sembrava
troppo difficile da affrontare, troppo veloce da inseguire, troppo
complicato da capire, lei semplicemente si lasciava cadere su quel
morbido materasso ed insieme al suo corpo sembravano sprofondare
anche i problemi. Tutto finalmente si fermava e non c’era niente
che potesse raggiungerla lì, nella sua camera. Adesso, quello stesso
letto, sembrava aprirsi come una voragine sotto di lei ed in quel
precipitare non c’era niente a cui potersi aggrappare per tentare
di salvarsi. Niente.
Lisbet
accarezzò la sua guancia con estrema lentezza e non appena con le
dita l’ebbe percorsa tutta, l’accarezzò di nuovo e di nuovo
ancora. Come aveva fatto a non accorgersene fino ad adesso? La
verità era stata lì, sul suo corpo, per tutto questo tempo. Sul suo
corpo, ma non sotto i suoi occhi.
Non
tornerò mai più come prima.
Questa
consapevolezza la stava dilaniando dall’interno. Come pretendeva
che il mondo la accettasse così come era, se proprio lei, guardando
il suo riflesso, ne era rimasta inorridita?
Si
rigirò sul letto e affondò la testa sul cuscino che molte volte si
era impregnato delle sue lacrime. Cominciò a piangere, ma non fu
come le altre volte. Non si sentì più libera, più leggera, più
spensierata. Si sentì disperata esattamente come poco prima.
«Lisbet?»
Suo
padre aveva bussato un paio di volte alla porta, ma non se ne era
nemmeno accorta. Lisbet fece finta di non sentire e cercò di frenare
le sue lacrime nel tentativo di non fare rumore.
Vattene,
papà, vattene.
Sentiva
la sua presenza dietro quella robusta porta di legno chiusa a chiave,
sentiva il suo respiro pesante come se potesse oltrepassare quei muri
e sfiorare il suo collo.
«Lisbet?»
ripeté un po’ più forte.
Tutte
le lacrime frenate si erano accalcate in un nodo d’ira nel suo
stomaco e improvvisamente afferrò l'abate-jour e la scaraventò con
tutta la forza che aveva contro la porta. La lampadina che al suo
interno stava emanando una luce stanca si ruppe in tantissimi pezzi
che si riversarono al suolo. La stanza piombò nel buio completamente
mentre nel silenzio si poteva udire il rumore di passi che si
allontanavano.
Se
io non posso essere come tutti gli altri, allora saranno gli altri ad
essere come me.
Scostò
leggermente la tenda e per un po’ stette immobile a scrutare il
mondo al di là della sua finestra che le permetteva di vederne solo
uno spiraglio. Se lei non poteva tornare come prima, neanche il mondo
sarebbe stato più lo stesso.
*
* *
Dagli
occhi di Enna
Molte
volte aveva pensato a come sarebbe stato il giorno in cui,
finalmente, avrebbe dato una svolta alla sua vita. Lo aveva
immaginato in miliardi di modi diversi e stravaganti, invece sarebbe
stata una cosa semplice, come non l’aveva mai pensata.
Enna
sfilò gli orecchini e li gettò a terra.
Era
una donna sulla trentina. Era elegante e spesso, per essere sempre in
ordine, rubava un’ora al suo sonno solamente per sistemare i suoi
lunghi capelli castani: li pettinava con una spazzola anche quando
erano perfettamente al loro posto. Sembrava quasi un gesto meccanico.
Poi, ogni volta, dopo essersi presa cura di loro per tutto quel tempo
faceva una cosa incomprensibile: li raccoglieva in uno chignon e li
intrappolava con un fermaglio. Chi, vedendo l’intreccio di capelli
sul suo capo, se la sarebbe mai potuta immaginare seduta davanti allo
specchio mentre li pettinava e guardava assorta il suo riflesso?
Chissà a cosa pensava poi veramente mentre la spazzola andava su e
giù. Forse quello strano rituale era solo una scusa per fermarsi a
pensare.
Enna
strofinò una mano sulle sue labbra per pulirle dal rossetto.
Pensava
a quel lontano giorno d’agosto dove, sotto le prime gocce di quella
che si sarebbe rivelata una tempesta con i fiocchi, con due guance
rosse come mele aveva regalato il suo primo bacio ad un ragazzino più
piccolo di lei. Pensava a quel giorno, un po’ meno lontano, in cui,
mentre un uomo le sussurrava all’orecchio “ti amo”, lei per la
prima volta aveva fatto l’amore. O forse, più che alle cose che
aveva fatto, pensava a quelle che non aveva ancora fatto o che
avrebbe voluto fare: a quell’amico un po’ sfigato, così lo
chiamavano, delle superiori con cui avrebbe sempre voluto parlare, ma
mai l’aveva fatto per paura di essere etichettata come lui; a
quegli allenamenti di calcio che aveva sempre dovuto osservare da
dietro i cancelli con la scusa di avere una cotta per il capitano
della squadra.
Enna
cominciò a camminare e si sfilò la giacca.
Forse
pettinava i suoi capelli e li ordinava perché era proprio quello che
faceva con i suoi pensieri. Quando raccoglieva i capelli, allora
raccoglieva anche i suoi pensieri e li cacciava via, in una parte
profonda di sé, lontana. Enna sapeva che ovunque dentro di lei non
era lontano abbastanza e che non c’era posto sicuro in cui chiudere
quei pensieri, ed infatti la sera scioglieva i capelli e i pensieri
tornavano a galla. Di giorno però doveva essere perfetta. Doveva
essere l’Enna che tutti conoscevano, che tutti volevano vedere, che
tutti dicevano di amare. Prima e dopo invece poteva provare ad essere
Enna e basta.
Enna
lasciò cadere la borsa sulla strada.
Ci
provava, ma non era così facile. Era come recitare tre quarti della
propria vita: ad un certo punto il personaggio che stai interpretando
non è poi così diverso da quello che sei. Si confondono.
Enna
slacciò l’orologio costoso mentre continuava a camminare.
Lavorava
in ufficio anche se non le era mai piaciuto farlo. Era un lavoro
onesto e le permetteva di mantenersi da sola e soddisfare qualche
sfizio per lo meno. Avrebbe sempre voluto essere una stilista, ma
questa era un’altra storia. Enna aveva frequentato il liceo perché
i suoi genitori erano persone prestigiose e di conseguenze lei doveva
essere una brava ragazza. Una brava ragazza non poteva non andare al
liceo e così non aveva mai studiato moda. Dato che lavorava in
ufficio ogni mattina indossava una gonna scura e una camicia chiara.
Mai il contrario.
Enna
si fermò un attimo e si sfilò i tacchi per poi lanciarli alle sue
spalle.
Improvvisamente,
però, si rese conto che la sua vita le andava un po’ stretta. Era
come uno di quegli abiti che vestivano meravigliosamente sul
manichino e la cui cerniera, quando si decideva di provarlo, faceva
una fatica impensabile a salire. Era un abito bellissimo, sì, ma non
addosso a te. Non se dovevi indossarlo una sera intera. Enna invece
quella vita l’aveva indossata per anni: per questo si era tolta gli
orecchini, si era sfilata la giacca, aveva lasciato cadere la borsa e
l’orologio, era scesa dai tacchi e poi aveva iniziato a correre.
Per quel giorno voleva essere diversa. Detto così è strano perché
diversa,
in realtà, era stata tutti gli altri giorni della sua vita, meno che
quello. Quel giorno sarebbe stata sé stessa. Iniziò a correre e
correre, ma la strada che ogni giorno la portava in ufficio sembrava
più lunga del solito. Correva, ma quella strada sembrava così
dannatamente diversa da quella di tutti i giorni. C’era sempre
stata una pasticceria in cui a volte si fermava e poi un passaggio
pedonale, adesso invece era solo strada che si srotolava in avanti.
Strada e basta, come se l’unica cosa che contasse fosse percorrerla
e non ci fosse tempo per fermarsi a fare altro. Tutto era cambiato
improvvisamente.
Mentre
correva era stata avvolta da un sottile strato di nebbia e si era
sentita completamente sperduta. Era sicura però di dover continuare
lungo quella strada.
Era
passato tanto di quel tempo che non avrebbe saputo dire se fosse
passata un’ora o più, quando finalmente la foschia cominciò a
disperdersi e qualcosa cominciò ad emergere in lontananza. Un
cancello alto e maestoso si ergeva davanti a una città che non aveva
mai visto. Tutto quel mondo, in realtà, le sembrava di non averlo
mai visto. Ora che finalmente riusciva a vedere, si accorse che la
strada sotto ai suoi piedi era in ciottoli bianchissimi ed era tanto
pulita che Enna avrebbe giurato non ci fosse mai passata neanche una
macchina. A costeggiarla c’erano prati dall’erba verdissima
intervallati da maestosi alberi. All’ingresso del cancello si
trovavano due uomini – probabilmente soldati – che stonavano con
tutto ciò che li circondava. Quella strada, quei prati, quel
cancello sembravano far parte della sceneggiatura di una dolce fiaba,
ma quegli uomini sorreggevano una lunga lancia minacciosa ed erano
rinchiusi in un’armatura di ferro. Enna si avvicinò a loro
timidamente: non sapeva dov’era arrivata e non sarebbe stata capace
di tornare indietro, ma non era spaventata. Era stupita per lo più.
«Nome,
prego» esordì l’uomo a destra rivolgendole uno sguardo che fece
capire ad Enna che doveva fermarsi.
«Enna»
rispose pacata soffermando il suo sguardo sull’uomo che le aveva
rivolto la parola.
L’altro
soldato abbassò lo sguardo su un grosso libro poggiato su un alto
leggio in legno. Scorse un paio di nomi prima di annuire con il capo.
«Sì,
c’è il suo nome. Sarebbe dovuta arrivare tra sette minuti a dire
la verità. La sua vita doveva proprio far schifo se si è messa a
correre così veloce per sfuggirle, eh?» si rivolse a lei l’uomo.
La sua voce era tanto simile a quella dell’altro soldato che, se
Enna fosse stata di spalle, sicuramente non sarebbe riuscita a
riconoscere chi dei due avesse parlato.
«Io...
no... avevo solo paura, non riconoscevo la strada».
«Cercano
tutti di negarlo, ma non si preoccupi. Qui finalmente avrà una vita
dignitosa. La vita che merita»
rispose
pacatamente l’uomo.
«La
sua nuova abitazione si trova nella periferia della città, ai piedi
del monte. C’è il suo nome sopra, per cui la troverà di sicuro»
concluse poi il soldato che le aveva inizialmente rivolto la parola.
«Dev’esserci
un fraintendimento. Io non volevo recarmi qui, stavo andando a…»
Avete
mai provato la sensazione di aver camminato per così tanto tempo da
esservi dimenticati sia da dove eravate partiti, sia dove avevate
intenzione di arrivare? Probabilmente no. Se ci muoviamo è per
arrivare da qualche parte: c’è chi deve presentarsi al suo primo
appuntamento, chi deve scattare una fotografia, chi deve correre per
non perdere l’aereo che lo porterà a vivere il viaggio che ha
sempre desiderato. Il giovinetto, dopo essersi guardato a lungo allo
specchio per assicurarsi di essere perfetto, sicuramente non si
dimenticherà la fanciulla che lo aspetta al parco; il fotografo,
dopo aver cercato la luce e la posizione adatta, non si dimenticherà
cosa voleva immortalare nella foto e il povero operaio, dopo una vita
di risparmi, non si chiederà, una volta sull’aereo, dove sta
andando.
Invece
Enna quella sensazione la stava provando.
«Signorina,
nessun fraintendimento. Se non vuole passare la notte fuori dai
cancelli, la invito ad entrare in città e cercare la sua abitazione.
Non appena l’avrà trovata le consiglio di recarsi nella piazza
principale: è meglio iniziare a conoscere subito le nostre leggi per
evitare spiacevoli inconvenienti. Le prigioni della regina non sono
il più ameno dei posti».
I
due uomini afferrarono le ante del cancello per le sbarre e le
aprirono invitandola ad entrare. Enna inspirò profondamente e
ringraziò i due uomini prima di varcare la soglia del cancello e
sentirlo chiudersi alle sue spalle.
In
lontananza riusciva a scorgere il monte che i due soldati avevano
nominato poco prima e, in cima, le pareva di vedere un castello. La
strada davanti a sé invece era dritta e di tanto in tanto si
diramava in altre piccole stradine. Neanche lei sapeva perché si era
arresa tanto facilmente e aveva accettato di rimanere in quel posto.
Stava percorrendo la strada principale quando un odore delizioso
stuzzicò il suo olfatto: si fece guidare e imboccò un sentiero
sulla sua destra. Proveniva da un banchetto di dolci sul ciglio della
strada. Enna si avvicinò lentamente mentre sentiva il suo stomaco
brontolare per la fame. I suoi occhi cominciarono a vagare in mezzo a
tantissimi dolci diversi: biscotti dai più svariati gusti,
croissant, pasticcini.
«Nuova,
vero?» disse un uomo alle sue spalle.
Enna
si voltò e la prima cosa che incrociò furono un paio di occhi
verdissimi, come mai aveva visto nella sua vita, che la stregarono.
Poi, quando riuscì a liberarsi dall’incanto, vide una pelle liscia
e leggermente abbronzata, capelli biondo cenere non troppo lunghi ed
un sorriso dai denti bianchissimi.
«Sono
qui da cinque minuti. Come ha fatto a capirlo?» domandò.
«Chiunque
avrebbe già preso almeno un biscotto da questo banchetto.»
«Ma
non ho soldi con me» replicò Enna.
«Non
servono soldi qui. Puoi prendere tutto quello che vuoi» rispose
sorridendole ancora una volta mentre si avvicinava di un passo ai
dolci. Ne afferrò due identici e gliene porse uno. Enna lo strinse
tra le mani e lo guardò un attimo prima di assaggiarlo. Non avrebbe
saputo dire cos’era, ma sicuramente era ricoperto dalla cioccolata
più buona che avesse mai mangiato nella sua vita.
«Se
è appena arrivata forse è meglio che qualcuno la aiuti. Io il primo
giorno l’ho passato a vagare senza meta e ho dormito su una
panchina. Vorrei evitarglielo, se possibile.»
«Accetto
volentieri signor…»
«Ren.
Ma non mi chiami signore, la prego. Mi fa sentire vecchio e credo di
avere più o meno la sua età» disse ridendo per qualche secondo.
«Piuttosto
che ne dice di darci del tu?» concluse.
«Certo.
Allora, Ren, i soldati all’ingresso mi hanno detto che la mia
abitazione si trova ai piedi del monte, in periferia.»
«Ti
accompagno volentieri, dato che vivo da quelle parti, se mi riveli il
tuo nome.»
«Enna.»
«Bene,
Enna… prima di trovare casa tua, che sicuramente è una cosa
importante, credo di doverti dire un paio di cose importanti su
questo posto» cominciò prima di incamminarsi nuovamente verso la
strada principale insieme a lei.
«La
prima è che questo mondo si chiama Apparenza. In realtà non
è il suo vero nome, ma io lo chiamo così. La seconda cosa è che è
impossibile scappare da qui. Nessuno ci è mai riuscito fino ad
oggi.»
«Questo
posto sembra un sogno. Sono arrivata ed ho già una casa, mentre nel
mio mondo comprarne una è una missione. Perché mai qualcuno
vorrebbe andarsene da qui?» disse abbozzando un sorriso scherzoso.
«Lo
capirai presto Enna, lo capirai presto» disse rispondendo al
sorriso.
«Sarò
io il primo ad andarmene di qui. Nessuno ci è mai riuscito, ma io ce
la farò» aggiunse poi.
«Non
stai bene qui?» domandò Enna mentre tornavano sulla strada
principale.
«Non
si sta troppo male, lo ammetto.»
«Se
non stai male, allora vuol dire che stai bene» replicò Enna sicura
di sé.
«Dici?
La felicità per te è semplicemente assenza di dolore?» domandò
Ren incrociando gli occhi di lei. Per la prima volta si rese conto
che erano di un blu così intenso che si aveva la sensazione di
precipitarvi dentro.
«Einstein
diceva che l’oscurità non è altro che assenza di luce e che il
freddo non è altro che assenza di calore. La felicità, allora, è
assenza di dolore» rispose ricambiando lo sguardo.
Lo
sguardo di Ren si fece pensieroso ed assente mentre la sua mente
macinava idee e idee e cercava una risposta convincente a
quell'affermazione.
«Non
penso che sia così... credo che sia un modo di vedere la vita un po'
cinico e triste. Ma se metti in mezzo Einstein chi sono io per
ribattere? Per questa volta mi hai fregato» ammise abbozzando un
sorriso.
Anche
Enna sorrise. Non lo fece solo perché era riuscita a far prevalere
in un certo senso il suo pensiero, ma perché Ren forse non se ne
sarebbe andato. Quando aveva visto i suoi occhi aveva pensato che
fossero la cosa più bella del mondo e se lui non sapeva rispondere a
quella semplice affermazione, forse, non se ne sarebbe andato.
«Comunque,
ti stavo dicendo... In cima al monte, come avrai notato, si trova il
castello della regina Lisbet. È
lei che regna qui e nessuno osa disobbedirle. Quelli che hai visto
all’entrata sono i suoi soldati. Ha un piccolo esercito personale.
Non ci sono mai guerre qui, anche perché dubito esistano altre città
oltre alla nostra in questo mondo. Si serve dei suoi soldati per
punire chi non rispetta le sue regole. Perciò, prima di portarti
nella tua casa, penso che tu debba vedere con i tuoi occhi quali sono
queste regole.»
«Nel
mio mondo si chiamano leggi» rispose Enna.
«Chiamarle
leggi sarebbe un insulto. Sono piuttosto capricci della regina, te ne
accorgerai tu stessa» disse Ren affrettando il passo.
Erano
giunti nella piazza principale della città. La prima cosa che notò
Enna furono due enormi fogli – che sembravano pergamena – pendere
al centro della piazza. Ai lati, invece, si ergevano altissime statue
di un uomo e una donna. Le loro figure erano scolpite nel marmo e
ricordarono ad Enna quelle che, in dimensioni assai minori, erano
tante famose nel suo mondo. Le loro mani sorreggevano una lunghissima
asta dorata ed era lì che le due enorme pergamene erano state
appese.
Enna
si avvicinò di qualche passo e, anche se il sole glielo stava
rendendo un compito difficile, cominciò a leggere ciò che vi era
scritto:
- Dal giorno del proprio arrivo si hanno a disposizione sette giorni di tempo per trovare un impiego.
- È vietato uscire di casa dalle ore 22.00 alle ore 06.00 del mattino seguente.
- È obbligatorio indossare gli abiti del proprio armadio.
- È vietato avere degli specchi in casa.
- Due persone che vogliono sposarsi devono presentarsi al cospetto della regina per riceverne il consenso.
- Non sono tollerati capelli bianchi o rossi.
Dopo
aver letto quella stupida regola, la prima cosa che fece Enna, quasi
senza accorgersene, fu spostare il suo sguardo su Ren. Sapeva
benissimo che i suoi capelli non erano né bianchi né rossi, ma
vedere il loro colore chiaro la rassicurò.
«Queste
regole sono assurde…» disse Enna con aria contrariata.
«Mi
sembrava di avertelo detto» rispose Ren. Continuava a fissare le
pergamene ed Enna ebbe la sensazione che stesse cercando di reprimere
l'istinto di stracciarle e farle a pezzi.
«Dai,
andiamo. Non starò qui ad aspettare che tu le legga tutte dato che,
come puoi vedere, sono un centinaio. Avrai tempo. Ti aiuto a cercare
casa tua» concluse.
Enna
annuì e lo seguì mentre si affrettava ad uscire dalla piazza.
«Un’altra
cosa che devi assolutamente sapere è che qui non esiste acqua.»
«Non
esiste acqua?» ripeté balbettando Enna.
«In
realtà esiste, ma la regina non la voleva nel suo regno, per cui è
stata assolutamente bandita. Poco fuori città c'è un'enorme distesa
di terra oltre cui nessuno si è mai spinto... si dice che un tempo
lì ci fosse l'oceano.»
«E
le persone come si dissetano quando hanno sete?»
«L’acqua
non è l’unica bevanda al mondo, dico bene?» replicò Ren mentre
un sorriso si distendeva sulle sue labbra.
Ci
avevano impiegato quasi un’ora per trovare la casa di Enna. Avevano
perlustrato tutte le vie della periferia senza ottenere alcun
risultato e quando, alla fine, avevano messo piede nella strada in
cui abitava Ren, ci avevano messo una manciata di secondi a trovarla.
Era proprio di fianco alla sua.
«…e
quindi hai una settimana di tempo per provare a renderti utile alla
società. Ti consiglio di riuscire a farlo il prima possibile. Le
prigioni del castello sono sicuramente meno confortevoli di questa
bella casa» concluse Ren fermandosi davanti alla tanto ricercata
abitazione.
Enna
rimase affascinata a guardarla. Era molto più di ciò che si sarebbe
aspettata. Non si parlava di una misera stanza o di un solo
appartamento: era una casa tutta intera solo per lei. Al muro, di
fianco alla porta, era affissa con un chiodo una targhetta in legno
su cui, con bella grafia, era stato scritto il suo nome, come le
avevano detto i soldati all’ingresso.
«Bé,
non entri? Non sei curiosa?» la incitò Ren.
Enna
rispose con un pacato sorriso e si avvicinò alla porta. Fu inutile
stringere la maniglia ed abbassarla poiché era chiusa e non si mosse
di un millimetro quando Enna tentò di spingerla.
«Che
stupida, non ho le chiavi» disse lei sospirando.
«Da
qualche parte ci sono di sicuro. Prova a guardare nella borsa…
ricordi che ti ho detto che la prima notte ho dormito su una
panchina? Bé, quando il giorno dopo mi sono svegliato, mi sono
accorto di avere la chiave proprio nella mia tasca. Avrei preferito
scoprirlo prima.»
Ren
rise per qualche secondo scoprendo una dentatura perfettamente
bianca.
Enna
infilò una mano dentro la borsa e cominciò a frugare cercando di
spiare all’interno. Un portafoglio. Un rossetto. Uno specchietto.
Una chiave. La afferrò e la tirò fuori per poi inserirla nella
serratura e farla girare un paio di volte. Un rumore metallico
l’avvertì che finalmente la porta era aperta, così la spinse
appena.
«Entri?»
chiese Enna cercando lo sguardo di Ren. Lui sembrò evitarlo.
«È
stato veramente un piacere aiutarti, ma devo proprio andare. Ci
vediamo, tanto abito qui di fianco a te» replicò riservandole
l’ennesimo sorriso.
«Oh…
certo. Ci vediamo.»
Enna
sentì la delusione colmarla. Forse era stato da stupidi, ma aveva
immaginato che, una volta arrivati, Ren sarebbe entrato in casa e che
lei lo avrebbe fatto accomodare nel salotto che non aveva nemmeno mai
visto. Sarebbe andata in cucina a cercare un po’ di vino e ne
avrebbe riempito due bicchieri da svuotare in sua compagnia. Forse la
sua fantasia aveva viaggiato troppo. Ren non era altro che un uomo
gentile che l’aveva aiutata vedendola in difficoltà… eppure ad
Enna sembrava di fiutare nell’aria che qualcosa fosse rimasto
incompiuto. Forse neanche Ren voleva andarsene, eppure lo aveva
fatto.